La mostra Pane Nero al BACS di Leffe (BG), curata dall’artista Patrizia Bonardi in collaborazione con l’associazione Artists.Sociologists, si è chiusa il 12 gennaio, completandosi con i testi dedicati alle sette opere in mostra da sociologi e liberi pensatori. Si è arricchita della presenza dello storico dell’arte Stefano Taccone che ha presentato”Sogniloqui”, la sua prima opera letteraria. Lo hanno introdotto la giornalista dell’Eco di Bergamo e freelance Giada Frana e la storica dell’arte e educatrice museale Romina Capelli. Canale Arte propone una serie di approfondimenti teorici e una galleria fotografica delle opere in mostra per Pane Nero.
Pane Nero è stato un omaggio all’omonimo libro di Miriam Mafai con opere di Silvia Beccaria, Valentina Biasetti, Patrizia Bonardi, Salvatore Giò Gagliano, Chiara Guidotto, Francesco Levi.
I)
I limiti di una cultura hanno una storia da costruire, continuamente e ancora. Tali linee di confine – magmatiche, pericolose, talvolta evolutive – rappresentano l’oggetto di riflessione e pratica per gettare le basi di una consapevolezza autentica, allontanata dalle trappole dei concetti di stabilità ed eternità. Le consuetudini sociali, il sostentamento, il lavoro e il lusso, la dignità e il prestigio: sono filamenti robusti oppure lievi, dove agiscono instancabili le energie delle resistenze e dei poteri, individuali e collettivi. Chi voglia assistere alle loro formulazioni fibrose e alle loro trasformazioni, deve affacciarsi agli spiragli della coscienza, per attingere lentamente alle sedimentazioni di generazioni e di secoli.
L’instabilità attuale si rende con un’operazione per supporti, dove la conoscenza dei materiali lascia tempi e spazi alle soluzioni. Performativa è la vivificazione del canto: unica breccia di fervore e sogno in un meccanismo, tanto rudimentale quanto già efficace, di estenuante produzione, sfruttamento, subliminale abuso. Sentita e aerea, si sporge verso lo spettatore la ricomposizione di abiti, tele, tessuti. Un allestimento di episodi seppelliti nell’anonimato; le regole sono sempre impresse in grigie lapidi, i nomi di uomini e donne si dimenticano. Rimangono, soltanto, le testimonianze labili dell’andamento ritmico di ogni spersonalizzata operazione: su carta, fogli, fotografie, per residui e feticci, sbiaditi ricordi incorniciati da un affetto ritrovato.
II)
In quali punti del linguaggio i classici schemi dell’evoluzione della civiltà, universalmente riconosciuti nel mondo occidentale, non reggono e saltano? Dove e quando i codici di comportamento e i sistemi simbolici, attraverso la nostra analisi della percezione e l’interpretazione che l’uomo dà del proprio ambiente, possono rappresentare delle nicchie in cui sono rifugiati antichi atteggiamenti che hanno resistito all’usura del tempo?
Il trasferimento in organi artificiali dei mezzi dell’intelligenza e della memoria collettiva ha invaso, in modo sempre più massiccio, il territorio del singolo individuo, privandolo delle particolari e caratterizzanti dinamiche espressive e inibendo le proprie capacità aggregative.
Collocare memoria e parola fuori dall’insieme organico delle strutture sensibili dell’apprendimento e del progresso umani è l’atto radicale di una progressiva perdita della coscienza del proprio corpo. Tale regressione ha pesanti conseguenze di carattere relazionale e sociale: siamo immersi in un’epoca di continue trasposizioni, in cui prendono vita nuove e improbabili discipline compensatorie dei periodi di produttività sedentaria, comunicazione impersonale, scambio interessato.
L’arte – in quanto filtro delle discipline antropiche, specchio del contemporaneo e ricerca dell’universale – può rappresentare il fulcro di un rinnovamento metodologico. Prendendo parte ad un processo di analisi del corpo sociale come prolungamento ed estensione nel corso del tempo del corpo anatomico, l’arte è strumento privilegiato per rivalutare la stessa nozione di natura come produzione perenne di linguaggio: artificialità ed eccezionalità.