Maura Banfo ha sempre subìto la fascinazione della materia: nel suo lavoro pluridecennale – costellato di mostre, residenze d’artista e molti riconoscimenti – ha attentamente indagato osservando la realtà, a partire dagli oggetti che la circondavano e decidendo di restituirli con il mezzo fotografico come nuove entità spogliate del loro significato, architetture da indagare, entità da osservare sotto punti di vista inediti per aprirli a nuovi codici di senso.
Negli ultimi anni Maura ha trovato in soggetti del tutto particolari, il nido e la conchiglia, due perfetti interpreti della sua poetica, in costante equilibrio sui concetti di presenza-assenza, un profondo senso della Natura, l’amore per la tridimensionalità intesa come oggetto nello spazio (e il nido è uscito dalla bidimensionalità della fotografia per riappropriarsi – grazie alla scultura – di un carattere meramente ambientale ), il contrasto tra fragile e resistente, l’importanza della comunicazione e dell’ascolto.
Nido e conchiglia non sono artefatti, si trovano già in natura, spesso hanno già concluso il loro ruolo “funzionale” e sono come abbandonati, silenti testimonianze di una vita che è avvenuta, di qualcosa che è stato e che ha in sé una storia da narrare, rinnovando eternamente l’immaginario ancestrale di cui sono portatori: il nido è proiezione in natura del concetto di casa e, per traslato, di concetto di famiglia, di relazione, luogo in cui cercare un rifugio ma dal quale partire (non senza pericolo) per scoprire il mondo, ed eventualmente tornare. Anche la conchiglia è una concrezione naturale che nasce come involucro protettivo per piccole creature marine; le sue architetture hanno affascinato l’uomo da sempre, tanto che molti esemplari di particolare bellezza e rarità sono diventati gioielli, monete di scambio, reperti da collezione, protagonisti di Wunderkammer e raccolte. Oggi subiamo ancora la loro fascinazione, sin da bambini ci è capitata la magia di sentire, appoggiando la conchiglia all’orecchio, il rumore che ricorda la risacca del mare. Un’illusione sonora dovuta ad un effetto acustico, ma che riporta immediatamente al luogo da cui la conchiglia proviene, quasi recasse con sé, per chi è disposto ad ascoltare, un magico potere evocativo. Grandi conchiglie sono protagoniste degli ultimi scatti di Maura, in cui lei stessa compare e si pone in dialogo visivo con essa. Abbiamo incontrato l’artista nel suo studio, accogliente luogo di pensiero e lavoro, così come è lei.
Maura, ci puoi raccontare come è nato il tuo interesse per questi due soggetti, il nido in particolare?
Il lavoro nasce dal progetto che avevo compiuto al Castello di Racconigi nell’ambito della rassegna Genius Loci curata da Guido Curto nel 2005: gli artisti erano stati invitati a pensare ad un lavoro ispirandosi al luogo. Avevo notato i grandi nidi delle cicogne sulle guglie del castello (nei pressi c’è anche un’importante oasi faunistica) e ne avevo tratto un’idea per approfondire lo studio sulle migrazioni degli uccelli e la loro capacità di costruire nidi nei quali tornare anno dopo anno. Una migrazione simile a quella dell’uomo. Il concetto di casa e nido diventa estremamente complesso se trasferito nella realtà e ha in sé diversi aspetti simbolici da considerare, non solo come di cura e protezione. Infatti l’ultimo progetto realizzato per Casa Casorati curato da Marco Enrico Giacomelli in cui ho presentato un nuovo nido si intitola “Running from safety”, dal titolo dell’omonimo libro di Richard Bach: come nella realtà si ha bisogno di lasciare il nido, se ne sente l’urgenza nonostante il “fuori” possa costituire un pericolo, e alla stesso tempo si desidera mantenere la possibilità di poter fare ritorno in un luogo che continua a rappresentare rifugio e protezione… Oggi, in parallelo alle fotografie, ho un discreto numero di nidi realizzati come opere scultoree, non più di una ventina, realizzati in fusione d’alluminio, oppure in resina rifiniti con un processo di zincatura. E’ curioso come all’inizio abbia incominciato a fotografarli, pur sentendo che non mi bastava…poi le persone me li regalavano, mi portavano esemplari di nidi abbandonati dalle forme, materiali e dimensioni più diverse e sono stata affascinata dall’oggetto in sé, tutt’altro che fragile, piuttosto una struttura architettonica complessa costruita intorno ad un “vuoto” sempre pronto ad accogliere… un vero parallelo della mia vita, del mio essere: fragile eppure forte, apparentemente delicato e resistente, un rifugio, ma anche un luogo da cui si vorrebbe fuggire; una metafora della condizione umana.
Perché sovradimensionarlo (quasi tre metri di diametro!) come nel caso del grande nido che hai presentato nel 2016 a Carrara?
Sentivo la necessità di trasferire il concetto di nido-casa nella realtà, portarlo fisicamente ad un carattere ambientale a misura d’uomo, sentirlo come il mio nido, quasi come poterlo abitare. Percepivo come essenziale potermi misurarmi con la terza dimensione, uscire dalla linearità della fotografia per affrontare la volumetria dello spazio e relazionarmi con essa. Un’opera al centro di un luogo silenzioso, dove lo spettatore poteva in qualche modo respirare e vivere uno spazio intimo in tutta la sua fragilità.
Cosa vorresti che rimanesse dei tuoi nidi a chi li osserva?
Vorrei che il collezionista facesse suo questo lavoro, se ne appropriasse completamente trasferendo su di esso il proprio io, seppure personalmente abbia sempre fatto fatica ad abbandonare i miei lavori…Mi ricordo che addirittura, agli inizi, ho partecipato ad una mostra con la clausola che nessuno dei lavori fosse messo in vendita! Che matta! Poi le cose si sono evolute, ma sono rimasta legata intimamente ai miei lavori, vorrei sapere che sono in luogo in cui stanno bene, dove anch’io sarei felice.
Qual è stato il lavoro subito precedente al nido?
Lavoravo su Home, un progetto sulla casa, in questo caso una casa nobile, preziosa: ho realizzato uno scatto di grandi dimensioni di una tavola riccamente imbandita e l’ho ribaltata, annullandone le regole, la mise en place, sovvertendone il suo ordine, aprendola ad una fruizione più democratica. Sin dall’inizio del mio approccio alla fotografia ho avuto, in parallelo alla polaroid (soprattutto per l’aspetto materico) anche la passione per la macro dimensione che mi consentiva di “entrare” fisicamente negli oggetti, scardinarli, analizzarli da un punto di vista architettonico. Una forma di macrospizzazione della realtà.
Erano oggetti che ti sostituivano, che parlavano di te senza mostrarti… Questo fino ad oggi: vedo che compari in diverse fotografie, anche se non si distingue tutto il volto. E’un lavoro per sottrazione in continua evoluzione.
Tutto il mio lavoro è stato una lunga e faticosa ricerca di me, che naturalmente è ancora in fieri… La ricerca sulla conchiglia è stata la naturale evoluzione di quella sul nido e poi i due temi hanno viaggiato di pari passo: tutt’oggi continuano a svilupparsi in parallelo come specchi di questo mio percorso. Sono sempre stata in bilico tra una me esuberante e una me introversa che desiderava rimanere dietro le quinte (non è un caso la scelta del mezzo fotografica!), io e il mio doppio con cui ho spesso dovuto combattere…Combatto tutt’oggi con lei. In realtà oggi sto facendo pace con me stessa: e lo si vede nei miei ultimi lavori dove ho scelto me come soggetto, come se fosse una necessità di ascolto proprio con me stessa, ritrovarmi, riconoscermi, senza se senza ma, in cui finalmente compaio anche io, in particolare nel mio autoscatto con la conchiglia che Pietro Gaglianò ha voluto fortemente mettere nella mostra personale da lui organizzata a Firenze. Per me è stato un passo fondamentale per cui lo ringrazierò sempre, mi ha accompagnata in un nuovo importante percorso: un autoritratto intitolato “ L’Ascolto”in cui finalmente mi rivelo, prima di tutto a me stessa.
La conchiglia nel lavoro successivo diventa maschera di una me sdoppiata, è la mia altra identità, ma mi piace pensare che ognuno possa dare poi la propria interpretazione, ponendosi in una dimensione di ascolto dell’opera. Proprio partendo dal concetto di ascolto, per me nodale, ho realizzato una serie di scatti in cui chiedo agli altri di relazionarsi con una conchiglia: nel progetto di residenza a Palermo ho chiesto agli artisti partecipanti di interagire con una conchiglia che avevo acquistato al mercato della Marina di Palermo, ognuno secondo il proprio sentire, facendola diventare uno strumento di relazione con sé stessi. La conchiglia de “L’Ascolto” invece è la stessa con la quale mio nonno mi faceva ascoltare il mare, la prima forma di ascolto della Natura che tutti da bambini abbiamo fatto e che riporta ad un contatto primordiale, poetico, istintuale, in primis con sé stessi. Adesso sento che c’è ancora un passo da fare, sto pensando ad un nuovo step al quale oggi sto dedicando molti dei miei studi.
Hai sempre pensato di volere essere artista, di dedicare la tua vita all’arte?
Posso dirti che fin da piccola era la materia che mi piaceva di più, verso la quale avevo una naturale inclinazione…ma non avevo alcuna idea del mio futuro! Disegnavo tanto la natura in tutte le sue forme, quasi un’ossessione. E poi amavo leggere le vite degli artisti, entrare nel loro mondo, percepirne l’essenza. Dopo il Liceo ho frequentato l’Accademia senza concluderla, ma ho avuto la fortuna di lavorare come assistente di Luigi Mainolfi ed è stato un periodo davvero formativo. Con Mainolfi ho imparato tantissimo, in termini di manualità, di visione intellettuale, di approccio alla dimensione fisica della materia. Di vita.
Intorno agli anni ’90, dopo un concorso vinto a San Francisco ed un’esperienza in una galleria di New York, ho incominciato ad esporre le mie fotografie; tra i primi lavori ricordo i ritratti/paesaggi di scarificazioni sulla pelle, rilievi “naturali” ispirati alle linee di Nazca. Dall’inizio ho lavorato con le Polaroid, le ho sempre amate perché le uso anche come oggetto, le rompo, le dissacro, le scarnifico…. Alle polaroid dedicherò presto un libro. In parallelo al mezzo fotografico, che rimane il mio strumento di maggior affinità elettiva, ho frequentato la scultura e ultimamente anche la pittura, tanto è vero che tra le mie opere recenti vi sono piccoli dipinti china e acrilico su carta cotone, un esperimento che mi ha appassionato e che penso di proseguire. Riconosco come punti importanti del mio percorso le molte residenze d’artista a cui ho partecipato, che valuto come essenziali momenti di approfondimento e riflessione: bisogna dedicarsi in un tempo preciso ad un unico progetto legato al luogo, spesso condividendo spazi e idee con altri artisti, fatto che di per sé è sempre un valore aggiunto.
Qual è l’essenza della tua ricerca?
Tutto è stato necessario nel mio percorso, non rinnego nulla, anche le cose che oggi forse non farei più, perché tutti i diversi progetti mi hanno portato ad essere l’artista che sono oggi e d avere una maggiore consapevolezza di me. Forse, se dovessi individuare un fil rouge più forte di altri, direi che è stato ed è il mio amore per la Natura, parte integrante del mio lavoro e della mia poetica, del mio essere donna e artista, oggi più consapevole. Ecco, è proprio il tendere ad una serena consapevolezza la filigrana della mia ricerca.
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