Ha inaugurato a Bari lo scorso febbraio la mostra Il Museo che non c’è. Arte, collezionismo, gusto antiquario nel Palazzo degli Studi di Bari (1875-1928), allestita nel Salone degli Affreschi dell’attuale Palazzo Ateneo, in origine sede dell’antico Museo Provinciale.
Un’operazione indubbiamente originale e raffinata, quella ideata dai curatori della mostra Luisa Derosa e Andrea Leonardi, professori presso l’ateneo Aldo Moro di Bari (rispettivamente in ‘Didattica della Storia dell’Arte’ e ‘Storia dell’Arte Medievale in Italia Meridionale’ e “Storia del Collezionismo’ e ‘Museologia e Museografia’): intelligente aver costruito con rigorosa visione filologica una (necessaria) mostra che ricordi il periodo felice del Museo Provinciale di Bari (1875-1928); addirittura avvincente averlo realizzato nel luogo dove tutto avvenne, restituendo alla collettività l’esperienza museale (o almeno la sua suggestione) di cento anni prima. Il tutto rielaborato alla luce delle testimonianze raccolte, delle conoscenze acquisite, dei documenti consultati: una raffinata ri-lettura del passato che illustra, con la forza icastica e suggestiva di un viaggio nel tempo, le preziosi eredità di una grande tradizione. Un progetto espositivo che ribadisce efficacemente il ruolo del museo non solo come patrimonio collettivo ma soprattutto come luogo identitario: un racconto che non si limita ad illustrare ma addirittura si fa promotore di un limpido suggerimento per il prossimo futuro del panorama culturale barese.
Il percorso di mostra racconta il momento formativo di un’Istituzione che ha giocato, dalla usa origine, un ruolo di rilievo per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico-artistico meridionale, nell’ambito del quadro nazionale immediatamente successivo all’Unità d’Italia. Il Museo Provinciale di Bari, specie negli anni di lavoro del suo primo direttore, il tedesco di origine ebrea Maximilian Mayer che lo guidò dal 1894 e sino al 1903, si è dimostrato infatti un punto di riferimento sia per quanto concerne la ‘riscoperta’ del Medioevo, sia per quanto attiene le componenti della storia dell’arte, del collezionismo e della connoisseurship di Età Moderna. Ponendo sempre al centro dell’attenzione l’opera d’arte, la mostra è frutto di un’attenta ricognizione documentaria che restituisce il museo barese quale snodo capace di attrarre – tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento – un’ampia platea di studiosi di levatura internazionale. Tra questi, si contano personalità di formazione e cultura mitteleuropea come Martin Wackernagel, allievo di Heinrich Wölfflin e in Puglia al seguito di un esperto medievista come Arthur Haseloff; conoscitori della cultura figurativa veneto-adriatica come Gustavo Frizzoni e Mario Salmi; sino a comprendere studiosi ed esperti frequentatori del mercato antiquario come Bernard Berenson, ‘pellegrino di Puglia’ ante litteram, nonchè il suo amico e mecenate statunitense Edward Perry Worren.
Abbiamo rivolto alcune domande al curatore Andrea Leonardi.
Come nasce il progetto di mostra?
La mostra è – come direbbero quelli bravi – una ‘mostra di ricerca’ che ho curato insieme alla collega Luisa Derosa. Questo risultato lo si è raggiunto senza clamore, a tappe e senza inseguire l’‘evento’ a tutti i costi, nell’ambito di una consolidata linea di lavoro che, dal 2016, ha saputo esprimersi per il tramite di appositi programmi d’indagine finanziati dall’Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’ e di cui sono stato coordinatore scientifico. Tra questi, mi piace ricordare Collezionismo e processi di musealizzazione tra Puglia e Basilicata in Età Moderna e Contemporanea, che ha portato a diverse pubblicazioni propedeutiche all’esposizione di cui stiamo parlando, a convegni, a programmi di insegnamento e seminari dedicati, coinvolgendo soprattutto studenti e dottorandi di ricerca dell’Ateneo barese. Ricordo ancora le battute scambiate a tal proposito con il compianto Professor Gianni Carlo Sciolla (Università degli Studi di Torino) quando, insieme a Giuseppe De Sandi, tra gli autori dei saggi in catalogo e che ora sta completando il suo dottorato di ricerca, gli presentai un contributo per la rivista ‘Annali di Critica d’Arte’ dedicato proprio a questi argomenti. Sciolla notò subito che l’articolo poteva essere una risposta efficace all’inspiegabile vuoto verificatosi su tali aspetti – a cavallo tra storia dell’arte, collezionismo e museologia – in un quadrante sensibile dell’Italia meridionale, dove, con ogni evidenza, gli storici dell’arte avevano sin lì preferito orientarsi su direttrici altre, abbandonando lo straordinario lascito di studiosi come Adriano Prandi, Michele D’Elia, Pina Belli D’Elia e Maria Stella Calò Mariani. Quattro anni dopo quel saggio, con in mezzo un’accorta campagna di ricognizioni d’archivio condotte prima sul ‘territorio’ e poi tra Firenze, Roma e Napoli, siamo riusciti a portare all’attenzione di un pubblico – speriamo non solo specialistico – un quadro quasi totalmente inedito che certo riguarda in prima istanza il museo barese, ma anche ciò che stava ‘intorno’ e ‘fuori’ a esso, come dimostra l’apertura all’importante vicenda del collezionismo Jatta. Naturalmente la mostra nasce prima di tutto da una condivisione di intenti tra Università degli Studi Bari ‘Aldo Moro’ e Polo Museale della Puglia. Essa però non avrebbe potuto vedere la luce senza il determinante contributo finanziario della Regione Puglia, che colgo l’occasione per ringraziare, insieme a Fabrizio Vona e a Mariastella Margozzi (in diversi momenti entrambi direttori del Polo Museale della Puglia), oltre all’allora Magnifico Rettore dell’Ateneo barese, Antonio Felice Uricchio, ora presidente del Consiglio Direttivo dell’ANVUR, tutti membri del Comitato Scientifico insieme a Maria Giulia Aurigemma (Università degli Studi di Chieti-Pescara), Massimiliano Rossi (Università del Salento) e Alessandro Rovetta (Università Cattolica del Sacro Cuore).
Quali sono le opere più significative (penso al Vivarini collocato in mostra al centro della ‘gran sala’) e quali storie sono legate ad esse?
La prima ‘opera’ che abbiamo portato in mostra è proprio l’edificio in cui ha trovato posto l’antico Museo Provinciale, il Palazzo degli Studi di Bari frutto di un progetto selezionato da una personalità di raffinata cultura come Emilio De Fabris. Si noti come De Fabris sia stato colui che a Firenze ha messo mano – nella seconda metà del XIX secolo – ad operazioni di primo piano dell’Italia appena riunita, dalla facciata di Santa Maria del Fiore, alla musealizzazione del David di Michelangelo all’Accademia. In mostra il visitatore può così apprezzare alcune planimetrie del palazzo illustrative delle sue diverse funzioni – tra cui quelle museali – disegnate dal vincitore del concorso presieduto da De Fabris, il napoletano Giovanni Castelli. Esse sono poi accompagnate dalle elegantissime lettere di colui che fu chiamato a eseguire le decorazioni ad affresco della Cappella, del Teatro e delle sale del Museo, il bolognese Rinaldo Casanova, un artista molto attivo non solo nel Sud d’Italia (a Capodimonte si occuperà di allestire l’armeria Farnesiana), ma anche in Inghilterra, a Londra, dove ad esempio intervenne addirittura nel palazzo della Manifattura Salviati in Regent Street, oggi sede dell’Apple Store.
Cifra dell’esposizione barese rimane ovviamente il racconto dei diversi elementi che hanno contribuito alla costituzione del ‘contenitore’ museale. Accanto all’imprescindibile componente archeologico-antiquaria, ben rappresentata dalla ‘nicchia’ descritta da Giuseppe Ungaretti che vide ‘il barocco più straordinario’ in alcuni vasi canosini di ‘ventidue secoli fa’, nonché dal primo reperto che fece il suo ingresso al Museo, una ‘stoviglia’ del V secolo a.C. con le ‘Storie di Teseo’, troviamo il Medioevo riscoperto con i cantieri di restauro degli edifici religiosi pugliesi, splendidamente testimoniato dal ‘capitello degli schiavi’ del Maestro della Cattedra dell’abate Elia, addirittura ‘messo in posa’ in una fotografia storica di Corrado Ricci riprodotta come altre per l’occasione. A seguire, il visitatore viene messo dinnanzi alla fortuna della cultura figurativa di origine veneziana in Puglia, con il ‘Sant’Antonio da Padova’ di Antonio Vivarini, punto forte di una quadreria – vedremo futura Pinacoteca Provinciale – dove la componente veneta era indiscussa protagonista. Infine, il contributo del mercato dell’arte che si è rivelato essenziale per questo museo di nuova fondazione: nello specifico, il capitolo è narrato attraverso lo ‘Sposalizio mistico di Santa Caterina’ attribuito al Guercino, ma ritenuto da Roberto Longhi opera del genovese Domenico Fiasella, sul quale, ancora di recente, ho avuto la fortuna di scambiare alcune felici battute con Carlo Bertelli.
Come accennato pocanzi, l’esposizione racconta non solo quello che è accaduto ‘dentro’ al Museo Provinciale, ma anche quello che è avvenuto ‘intorno’ e ‘fuori’. Nel primo caso, abbiamo valutato il passaggio di illustri visitatori come Bernard Berenson, che in Puglia giunse per la prima volta nel 1897 quando, a Giovinazzo, gli capitò di scoprire il ‘San Felice in cattedra’ di Lorenzo Lotto. Berenson visitò poi il Museo nel 1907 attratto dal suo nucleo di opere dei Vivarini e continuerà ad avere rapporti con la Puglia almeno sino al 1952, a sua volta facendola conoscere all’amico e mecenate Edward Perry Warren. Warren ricordo che era a tal punto intimo di Berenson da essere il destinatario delle dediche delle due prime edizioni della sua monografia su Lotto (quella del 1895 e quella del 1901). È anche colui che acquistò un magnifico cratere a volute per cederlo poi all’Istituto barese. Proprio in ragione di tali nessi, abbiamo deciso di portare in mostra il ‘San Felice’ di Giovinazzo mettendolo a sistema tanto con la scelta di Berenson di identificare nel centro di Altamura una città ideale dove rifugiarsi (questo accadde dalle pagine della rivista ‘The Golden Urn’ del 1897), quanto con i diari e gli schizzi di sua moglie, Mary Costello e, concessi in prestito da Villa I Tatti – The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies. Tra questi ultimi, abbiamo proprio il quaderno che riporta il disegno del ‘nostro’ San Felice di Giovinazzo accompagnato dalle considerazioni del celebre connoisseur.
Per ciò che concerne il ‘fuori-museo’, infine, questo è ben rappresentato dalle inedite vicende di un collezionismo ottocentesco capace di dare forma a ‘contenitori’ che nascono privati ma che, sin dalla loro origine, vengono aperti anche al pubblico con una missione precisa, quella di ‘educare al gusto’. È quanto accaduto con il ‘museo’ della famiglia Jatta nel suo palazzo di Ruvo, oggi in parte sede del Museo Nazionale, da dove è giunto per l’occasione un preziosissimo rhyton in forma di sfinge che certo nella dimora in questione affiancava quadri di assoluto valore, tra cui una ‘Lucrezia’ di Artemisia Gentileschi, purtroppo recentemente dispersa sul mercato antiquario. Sempre in questa sezione, c’è stata la possibilità di raccontare ciò che di eccezionale avvenne subito dopo il 1928: l’impegno di Federico Hermanin, tedesco nato a Bari e direttore di Palazzo Venezia durante il ventennio, che invierà nel capoluogo pugliese quadri dalle Gallerie Corsini e Barberini di Roma – tra cui il Luca Giordano in mostra – per innestarli sul nucleo pittorico dell’antico Museo Provinciale – il Museo che non c’è più – dando così vita a una nuova e autonoma Pinacoteca.
Quali difficoltà avete riscontrato nel comporre la mostra e quali aiuti?
Le difficoltà non sono mancate ma, devo dire, che di cosiddetti ‘aiuti’ ne abbiamo avuti di diversi. In primo luogo da parte della Regione Puglia, poi dai diversi livelli della struttura amministrativa dell’Ateneo. Non ultimo, dai vari soggetti prestatori che con la loro disponibilità hanno garantito il ‘ritorno a casa’ di opere straordinarie. Fattore essenziale nella fase esecutiva del progetto è però stato quello di ricostruire una ‘filiera’ in grado di governare tutti i passaggi del processo realizzativo di una mostra: scientifici, logistici, assicurativi, di allestimento, di sicurezza, sino alla pubblicazione del catalogo nella collana ‘Le Voci del Museo’ (Edifir, Firenze), fondata e diretta da Cristina De Benedictis e Antonio Paolucci. Un’iniziativa di questo tipo, calata in un contesto universitario – che obiettivamente non è abituato a ‘fare il Museo’ -, è prima di tutto stata un’occasione per dare vita a un sofisticato strumento di ricerca e di didattica immersiva. Come tale si è rivelato determinante per dimostrare – soprattutto agli studenti – che la disciplina storico-artistica si occupa della complessità. Non solo, è servito anche a svincolarsi dalla logica degli eccessi di una comunicazione dove tutto ormai può dirsi, ahimè indiscriminatamente, ‘evento’ e/o ‘mostra’. Dopo questa esperienza, la struttura universitaria è pronta a lanciare nuovi progetti.
Quale impatto ha avuto il Museo nella cultura e nella memoria cittadina?
Parlare di ‘impatto’ nella cultura e nella memoria cittadina è difficile, soprattutto in una città come Bari che – nonostante gli encomiabili sforzi – manca di una vera e propria infrastruttura culturale, al netto della Pinacoteca ‘Corrado Giaquinto’ ora in carico alla Città Metropolitana. Personalmente sono arrivato a Bari sei anni fa per insegnare Storia dell’Arte Moderna presso la ‘Aldo Moro’ e sono rimasto subito colpito dal fatto che questa città è forse l’unico capoluogo di regione senza una Galleria Nazionale e senza una vera e propria rete museale, nonostante i reiterati tentativi legati al contemporaneo (l’ex Teatro Margherita) e al cantiere di Santa Scolastica, promesso, promettente e atteso Museo Archeologico. In un simile contesto, il Museo ospitato nel Palazzo degli Studi non è mai stato percepito dalla maggior parte dai baresi adulti come una realtà ‘enciclopedica’ quale in effetti fu sin dalle sue origini. Ciò che lascia perplessi è poi che per i più giovani – in particolare per gli studenti del nostro Ateneo – semplicemente non sia mai esistito un Museo, archeologico o generalista a questo punto poco importa. Figurarsi, dunque, se in tempi recenti qualcuno si sia posto il ‘problema’ del suo smantellamento e di ciò che era pervenuto dell’allestimento tardo-ottocentesco e primo-novecentesco che siamo andati a raccontare con questa mostra. A voler storicizzare la vicenda, rimanendo però un passo fuori dalle inevitabili e comprensibili tensioni tra le Istituzioni coinvolte, si deve anche tenere conto che, da un lato, è forse venuto meno un sereno dibattito tra gli addetti ai lavori (fatta eccezione per il convegno del 2007 coordinato da Luigi Todisco e per alcune ‘voci’ giornalistiche fuori dal coro), dall’altro, si è scontata l’assenza di una più incisiva reazione da parte della cosiddetta ‘società civile’ a fronte della perdita, nel 2002, di un elemento tra i più caratterizzanti dell’identità culturale di un’intera comunità. Mi limito a notare che come tale, infatti, Gustavo Frizzoni aveva letto il Museo visitandolo nel 1914 ammirandone – al pari di Berenson nel 1907 – i suoi Vivarini.
Proprio a proposito del valore identitario delle opere del Rinascimento veneziano che hanno segnato Bari, la Puglia e il Museo Provinciale in questione, si consideri che ancora nel 2013 una di queste, il polittico di Antonio Vivarini con il Cristo in Pietà e i Santi Ludovico da Tolosa, Francesco d’Assisi, Giovanni Battista e Antonio da Padova (l’ultimo è lo scomparto firmato e datato accolto in mostra), è stato ‘scelto’ dal Gruppo Prada per venire restaurato in coincidenza dell’inaugurazione di una sua nuova boutique affacciata sulla centralissima via Sparano, aperta negli spazi che erano stati dello storico editore barese di Benedetto Croce, Giuseppe Laterza. Ebbene, quest’opera – al pari del Museo Provinciale e delle altre testimonianze figurative venete in esso custodite – era per Frizzoni «degna di una capitale» e dunque prova di matura ‘indipendenza’ culturale di tutta quella vasta area della ‘provincia’ meridionale che, sino all’Unità d’Italia, ha sempre scontato l’eccessivo protagonismo e peso della Napoli capitale borbonica. Comunque, al netto di più o meno ‘alte’ considerazioni storico-critiche, resta il dato incontrovertibile che un vero e proprio ‘fossile’ museografico, il Museo Provinciale sino al 1928, poi Museo Archeologico ancora sino al 2002, è andato quasi completamente perduto. Come una simile situazione si sia potuta verificare non è facile a dirsi e non sta certo a noi giudicarlo. Ci auguriamo però vivamente di aver restituito la nostra ‘opinione’ di ricercatori attraverso il catalogo (un volume di 376 pagine!) pensato per rimanere anche dopo il momento spettacolare dell’esposizione.
Pensa che il progetto potrebbe tracciare il solco per uno spazio in permanenza che ricordi il Museo?
Sicuramente è un’ipotesi di lavoro affascinante sulla quale abbiamo subito cominciato a riflettere. Dal punto di vista dello studioso che si occupa anche, insegnandola, di Museologia e Museografia, non mi posso dire affatto contrario circa l’operazione che ha condotto al trasferimento delle collezioni archeologiche dal Palazzo degli Studi allo splendido complesso di Santa Scolastica. Se però si potesse tornare indietro, suggerirei a quanti se ne sono occupati di ripensare alla possibilità di mantenere negli antichi spazi del Museo Provinciale – che coincidono con quelli forse a più alta densità artistica di tutto l’Ateneo di Bari – un ‘presidio’. Sarebbe infatti bellissimo poter continuare a guardare alcuni dei quadri visti da Gustavo Frizzoni, da Corrado Ricci e da Bernard Berenson, unitamente a una ristretta selezione dei reperti archeologici che ‘abitavano’ le antiche vetrine ancora conservate – e fortunatamente protette da un vincolo pertinenziale – sotto le volte affrescate da Rinaldo Casanova.
Sono proprio quelle vetrine che ci parlano di presenze ‘in assenza’: i ripiani sono lì, ancora imbarcati per ricordarci del peso dei vasi e delle suppellettili che incantarono Ungaretti e che ora non ci sono più. Riflettiamo e lavoriamo su come tornare a far vivere questa identità perduta di straordinario valore.
Per info
Salone degli Affreschi, Palazzo Ateneo (Piazza Umberto, Bari)