Aletheia è una parola greca che indica il concetto di “svelamento”, “rivelazione” o “verità”. Questo il termine, fortemente evocativo, scelto dall’artista Berlinde De Bruyckere per la sua personale alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, visibile fino al 15 marzo 2020.
Nella mostra, a cura di Irene Calderoni e specificatamente pensata per gli spazi della Fondazione, l’artista, grazie a sculture che richiamano lo scuoiamento delle pelli animali e l’ampio uso di drammatici e realistici calchi in cera, indaga temi universali e in tensione tra loro quali il dolore, la memoria, la pulsione alla vita e il destino di morte, la necessità insita nell’uomo di superamento e trasformazione della sofferenza grazie alla catarsi della con-passione, quel sentire insieme che accomuna gli essere umani in un’ottica di autentica pietà. Influenzata dalla storia dell’arte e dalla mitologia, De Bruyckere ha pensato ad una monografica concepita come una grande narrazione non solo concettuale ma anche estetica, in risposta all’architettura della Fondazione e ai suoi ampi spazi minimalisti;la mostra trae ispirazione da un luogo che l’artista ha visitato nel passato recente, e che da allora ha influenzato tutta la sua pratica artistica: un laboratorio per la lavorazione delle pelli ad Anderlecht e Nijvel, in Belgio. Qui le pelli degli animali, appena strappate, vengono impilate su larghi bancali e ricoperte di sale per preservarle in funzione di trattamenti successivi. L’estrema violenza che si è perpetrata è evidente, recente, ma sembra qui attutirsi in opere cristallizzate, immobili nel loro silenzio avvolgente, quasi sacrali nella luce fredda delle lampade.
Come ci racconta l’ottima mediatrice culturale che ci accompagna nella visita (un servizio che la Fondazione mette a disposizione dei visitatori, sempre molto apprezzato) per questo suo progetto l’artista è intervenuta personalmente nella sede della Fondazione lavorando, unitamente al suo staff, per diverse settimane; quando ha visto il luogo ha deciso di dialogare con l’architettura con opere specificatamente commissionate dalla Fondazione, pensate per il corridoio e la sala grande, per l’occasione trasformata in un vero e proprio ambiente scenografico immersivo; per questi spazi l’artista ha deciso di non includere le opere già in Collezione Sandretto, ma piuttosto di lavorare con opere nuove ponendole in stretta relazione – anche visiva – con il progetto architettonico di Claudio Silvestrin. Nel corridoio le opere Nijvel I e Nijvel II aprono e chiudono la prospettiva: sono cubi, figure geometriche che rimandano ad un’idea di moduli disposti in serie, astratti e materici al tempo stesso, tutti diversi. Lungo il percorso incontriamo le opere Anderlecht, II e III, che, rispetto a Nijvel realizzati con lacerti di pelle e brandelli di carne, parlano di una fase successiva del processo di conceria: le pelli sono piegate e impilate sui bancali, e forte è il rimando a coperte ordinatamente affastellate, sia nella scelta delle cromie che nella matericità evocata, pari al feltro: un tema molto indagato dall’artista per il forte connotato simbolico, la coperta evoca un’idea di protezione, conforto, ma visivamente è anche un forte rimando iperbolico alla guerra, alla fuga, alla richiesta di asilo.
La prima sala e l’ultima completano la drammaturgia della mostra con opere che aprono a nuovi spunti narrativi posti in strenuo dialogo: la prima sala è dominata dalla grande scultura Palindroom (2019), un fantoccio di una cavalla impiegato negli allevamenti equini per la riproduzione degli stalloni; nonostante questo è evidente in parallelo il richiamo al fallo maschile, un’ambiguità sempre presente nei lavori dell’artista, una duplicità di senso ottenuta anche grazie a soluzioni formali antitetiche che si riflettono in parallele ambiguità concettuali: l’impulso alla vita e il richiamo alla morte, l’aspetto organico e tattile della superficie in opposizione alla freddezza e rigidità della struttura.Un senso della narrazione che pone sempre nuove tensioni, percettive e semantiche.
L’installazione ambientale nella sala grande (nominata Aletheia , on vergeten /dimenticare in olandese, da cui il titolo della mostra) è grandiosa, costruita come una vera e propria scenografia (ricordiamo che l’artista ha già lavorato alle scene di un’opera teatrale, Pentesilea, al Théâtre La Monnaie di Bruxelles nel 2014) ed è stata pensata dall’artista come ripresa del laboratorio di Anderlecht, un luogo che, secondo la sua stessa dichiarazione, l’ha commossa, più che impressionata; forte è il senso di compartecipazione e di coinvolgimento, più che di repulsione, che vorrebbe trasmettere. Le cataste di pelli appena scuoiate (calchi in cera lavorata e dipinta) sono adagiate su ampi bancali, ricoperte di sale che le conserva, in un ambiente in cui persino il pavimento è corroso dal sale e inciso dai solchi dei muletti, solchi nei quale scorrono fluidi residui organici: un forte realismo che accentua lo straniamento nel visitatore, così come le lampade industriali dalla luce fredda e puntuale evocano, immediata e raggelante, la dimensione del laboratorio. Qui il senso di disvelamento della condizione umana è portato alla massima intensità: l’atto stesso del rendere presente, di portare alla conoscenza – in contrapposizione al dimenticare – costituisce già un atto di redenzione e riparazione.
Nelle parole dell’artista “In questo momento storico, in cui proliferano estremismo e razzismo, in cui compassione e solidarietà sono inariditi, in cui vediamo troppe somiglianze con l’inquietudine degli anni trenta che ha preceduto le mostruosità innominabili dell’Olocausto e quella particolare diffamazione della civiltà è persino negata da persone con troppo potere politico, sento l’esigenza di proporre immagini audaci, forti. Voglio portare quella stanza al pubblico. Come una esperienza fisica, immersiva”.
La serie delle opere disposte nell’ultima sala (It almost seemed a lily, V, 2018; It almost seemed a lily IV, 2018; Pionen, 2017-2018) si ispira agli horti conclusi diffusi nei Paesi Bassi nel Tardo Medioevo, realizzati dalle religiose con preziosi ricami e l’uso di tessuti pregiati: si tratta di tabernacoli riccamente decorati, spesso destinati a conservare una reliquia.
L’artista ne ha realizzato una versione monumentale ricorrendo all’uso di stoffe e nuovamente a calchi di pelli animali, di elementi che richiamano ossa, membra e tessuti organici in disfacimento. Un effetto straniante e perturbativo che, se nell’intenzione voleva indurre a far pensare a dei fiori di carne fuori scala, così come indicato dai titoli, in realtà conduce ad una più ampia riflessione sulla metamorfosi fisiche e spirituali che coinvolgono l’essere umano, continuamente sospeso e dibattuto tra morte e vita, pulsione e sofferenza, armonia e decadenza.
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Berlinde de Bruychere_ Aletheia