Ancora pochi giorni per visitare T30, preziosa antologica dello scultore torinese Paolo Grassino. La mostra, a cura di Lorand Hegyi e prodotta da Davide Paludetto con la collaborazione dell’Istituto Garuzzo per le Arti Visive, è ospitata a Palazzo Saluzzo di Paesana fino al 30 novembre.
Il progetto espositivo invade con l’irruenza della materia (fusioni in alluminio, cemento, tubi) gli spazi barocchi del palazzo nobiliare, vissuto come un sontuoso palcoscenico che esalta e contrasta le sculture a seconda dei casi: un dialogo che punta su una dicotomia estetica e concettuale, così come nella poetica dell’artista, a partire dalla clamorosa visione di Analgesia (2012) un branco di cani in fusione di alluminio che si aggirano intorno a carcasse di automobili al centro della settecentesca corte che accoglie i visitatori. Le opere, accuratamente selezionate, affrontano tematiche care all’artista, dal rapporto con la Natura alla denuncia sociale, alla visione di un mondo del futuro drammatico e contraddittorio nei suoi conflitti e divisioni: poste in sequenza non narrativa ma per macro-capitoli tematici, riescono a tracciare con forza la coerenza di un percorso professionale intenso, costellato da mostre importanti e riconoscimenti, e tenacemente costruito nel corso di trent’anni di attività. Un traguardo che Davide Paludetto, gallerista sensibile e attento alla promozione degli artisti del territorio, così come suo padre, ha voluto celebrare con una mostra che è anche un regalo alla città di Torino, spesso non lontana dal cliché amaro del nemo propheta in patria.
Paolo Grassino, le cui opere sono molto richieste e che espone oggi in tutto il mondo (negli ultimi anni anche in Cina e Singapore, dove è molto apprezzato) ha studiato all’Accademia Albertina di Torino: allievo di Luigi Mainolfi e Gilberto Zorio, ha dedicato la sua vita alla scultura e oggi insegna all’Accademia di Palermo dopo un’esperienza all’Accademia di Carrara. La scelta operata dall’artista – 12 grandi sculture, alcune di queste fuori scala – ha certamente tenuto conto della particolarità e suggestione del luogo, riccamente decorato da specchi, ori e stucchi, ma vuole, al contempo, essere un compendio della sua produzione, una visione d’insieme che precluda a nuovi percorsi e proponga un ideale “stato dell’arte” della sua ricerca.
Abbiamo chiesto all’artista di accompagnarci e illustrarci da vicino le sculture e il progetto, a partire dalla scelta del titolo, T30.
La T si riferisce a Torino ma è anche il titolo del lavoro realizzato appositamente per questa mostra, opera che accoglie i visitatori alla sommità dello scalone: è un omaggio alle vittime della tragedia Thyssen Krupp del 2007, due figure letteralmente attraversate da una putrella in ferro, la cui sezione T emerge come un marchio a fuoco. La T è anche simbolo della croce, una riflessione sul sacrificio che la tragedia della Thyssen ancora oggi evoca, una ferita per la città e per tutto il mondo del lavoro. 30 si riferisce ai 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino, periodo che coincide con l’inizio della mia attività. La mostra accoglie infatti alcune delle opere più significative di questi trent’anni di lavoro; ho poi scoperto che T30 è anche il nome di un carro armato americano e l’ho trovato assolutamente coerente: la mostra parla di un eterno conflitto, che poi è quello sempre presente nella storia dell’Arte, tra l’uomo e la macchina, l’uomo e la Natura, il tempo, l’informazione, il senso della proprietà e della giustizia, e infine tra l’uomo e la sua stessa essenza. T30 racconta come si è evoluta la Storia in parallelo alla mia storia personale, e come io l’ho interpretata con il mio lavoro. Nell’89 la caduta del Muro ci ha regalato un momento di euforia, credevamo che finissero le ideologie, mentre oggi ci troviamo in situazioni più complesse e problematiche di allora. La mostra è pensata come una narrazione ma non c’è un percorso definito: sono tutti ritratti della nostra società, di noi stessi, del nostro disagio. L’episodio della Thyssen in particolare ha segnato il nostro Paese e tutto il mondo del lavoro, non ci si aspettava potesse capitare ai giorni nostri. È stata una contro-prova drammatica di come le nostre sicurezze, le nostre idee di avanzamento tecnologico non fossero poi così esatte, ma addirittura potessero danneggiarci.
Le due figure che sorreggono la putrella, ad un occhio attento, sono riconoscibili: sei tu…
Sì, sono io raddoppiato, clonato due volte… ho utilizzato due calchi di me stesso perché non volevo che un lavoro così drammatico, un peso psicologico così forte ricadesse sulle spalle di un altro…A differenza di Lavoro rende Morte, dove la putrella cade a terra, in T questa rimane sospesa, è come un lampo che sorprende le due figure che non hanno neppure il tempo di reagire: volevo rendere visivamente lo shock di un evento inatteso e drammatico, che annichilisce e annulla anche le coscienze.
Nella prima sala non è possibile rimanere indifferenti a Ciò che resta (2014) un grande teschio in tubi elettrici fuori scala, una sorta di Vanitas post moderna…
Ciò che resta, come tutti i lavori in mostra, ha in sé una doppia tensione tra due soggetti contrapposti: in Analgesia ci sono macchine e cani, tecnologia e natura, dove il branco di cani rappresenta la nostra società svuotata di significati, per cui anche la tecnologia si è rivelata un guscio vuoto; in T l’uomo è sacrificato al progresso, in Ciò che resta la tecnologia è rappresentata dal tubo che diventa la nostra struttura ossea. Il teschio rimanda immediatamente all’idea della morte, che è un’astrazione concepita dal cervello, a sua volta contenuto nel teschio: la scultura diventa così un’immagine tautologica di grande impatto visivo. Inoltre il teschio, svuotato del suo contenuto naturale, è formato da tubature della corrente elettrica vuote (non lontane dal brulichio dei vermi) che non contengono più energia. Esattamente come avviene per l’uomo.
Anche No name (2014) gioca con l’assenza dell’uomo evocato dai tubi vuoti che ne disegnano il contorno…
No name è una fusione in alluminio del 2014: per realizzarlo ho eseguito il calco della mia persona con la terra refrattaria ricoperta da tubi in fusione; la terra refrattaria si elimina in cottura: è rimasto, ancora una volta, solo l’involucro di qualcosa che non esiste più. Questo è il bello della scultura, che puoi avere una visione tridimensionale, lavorare dall’interno e dall’esterno, giocare con il vuoto, evocare la parte mancante, agire per sottrazione: un procedimento che mi affascina da sempre. Questa figura umanoide ci induce a soffermarci su ciò che non si vede, la possiamo solo immaginare in abesentia.
Serie Zero (2018) rimanda alla statuaria classica, sono tre giovani che si stanno trasformando in rami, come nelle sculture del Bernini e nelle metamorfosi di Ovidio…
Serie Zero è una delle opere che vuole aprire uno squarcio di possibilità sul nostro futuro e spingerci ad un momento di riflessione: anche qui ci sono due elementi, l’uomo e la Natura, due binari paralleli e distanti che ora abbiamo l’obbligo, direi l’urgenza, di riportare in armonia, di fondere insieme. Dobbiamo riappropriarci della Natura: una parte delle figure è nuda e con i piedi ben piantati a terra, l’altra è mistero: dobbiamo riavvicinarci alla Natura con il silenzio, con il senso del Sacro che essa ci impone. Le figure sono i calchi di tre giovani, non sono uomini fatti, e forse proprio i giovani possono avere la forza per realizzare un cambiamento, così come l’attualità ci indica: la prima versione di questa scultura l’ho realizzata nel 2005, in anticipo su ciò che sta avvenendo oggi. Anche Fiati, il grande cervo che appare a grandezza naturale in una stanza apre ad un momento di riflessione positiva, è un’immagine poetica: in diverse culture il cervo ha una connotazione magica, una sua apparizione allude ad un buon auspicio.
Madre (2010) interrompe drammaticamente, con il rosso vivido della cera che evoca il sangue, la sequenza di nero e grigio delle sculture…
Per arrivare alla verità dobbiamo andare oltre alla superficie del visibile, “rovesciare la pelle”: Madre è un’opera imprescindibile della mia ricerca, è l’immagine dell’interno del nostro corpo, un grumo pulsante, un magma in continuo movimento. La cera, materiale mobile di per sé, rende questo pensiero con grande efficacia. Oltretutto da un punto di vista tecnico il calco in cera rappresenta lo stadio precedente alla fusione, alla cristallizzazione che la scultura rappresenta. Ho realizzato Madre in differenti versioni e nel tempo ha sempre subito un’espansione o una modifica, come un’opera che ha una propria vita: nella mostra nel Macro era giunta ad espandersi sino a 8 metri.
Anche Deriva (2007-2011) scultura che rappresenta un groviglio di rifiuti, carcassa di automobile con rami e resti di oggetti, si è espansa sino ad invadere una delle sale più grandi del Palazzo…
Le mie opere non sono installazioni site specific, sono sculture che si impadroniscono dello spazio e che si modificano nel tempo: Deriva è del 2007 e negli anni si è implementata, sono stati aggiunti dei rami, delle bottiglie di plastica, degli scarti…Come ogni mia scultura porta in sé una sua narrazione che ha uno svolgimento, non è mai uguale a sé stessa.
L’ultima sala è abitata da Invalicabile (2012), tre figure di cemento ricoperte di cocci di vetro…
Le figure in cemento sono cosparse di cocci di bottiglia come quelli che si mettono sui muri di cinta: sono dei veri e propri uomini-muro: il vetro è un’arma offensiva, ma la riflessione è sul fatto che i vetri feriscono anche chi li usa, oltre che ad essere esteticamente sgradevoli. Difendendosi, feriscono e si auto-feriscono: mi viene in mente Meriggiare pallido assorto di Montale: in quell’immagine del muro cosparso di cocci il poeta ci restituisce tutto il dramma della sofferenza umana. Incredibilmente da trent’anni i muri sono aumentati e non diminuiti: nell’89 nel mondo si contavano 17 muri, tra cui il Muro di Berlino: oggi se ne contano, tra mura e barricate, 72. L’abbattimento del Muro di Berlino è stato un evento importante, ma in fondo non ci ha insegnato nulla, ha solo tolto una macchia scomoda dal cuore dell’Europa.
Tornando alla grande scultura che hai scelto come introduzione alla mostra, che effetto ti ha fatto vedere Analgesia al centro della corte storica?
Non avevo mai esposto Analgesia a Torino e devo dire che mi ha molto stupito per l’effetto visivo nel suo insieme, sembra sia stata realizzata esattamente per la corte di un palazzo barocco torinese, ha gli stessi colori delle pietre, della decorazione del cortile, più in generale ha i colori di Torino, che forse è l’altra grande protagonista di questa mostra! Tra l’altro sono le stesse tonalità di grigio delle coste del Belgio, paese dove ho esposto in passato la scultura: è come se avessi strappato un pezzo del Mare del Nord e lo avessi fuso con il nostro grigio, quello del cemento, dell’alluminio.
Il titolo dell’opera indica uno stato dove non si prova più dolore…cosa intendi?
In dolore purtroppo esiste ma forse oggi non c’è più la capacità di provare il dolore, di comprendere appieno quello che provano gli altri. Un’immagine apocalittica, dove gli animali siamo noi, resi feroci dalla paura e alla fame; la tecnologia, rappresentata dalla carcassa dell’automobile, è totalmente svuotata, non serve più a nulla, certamente non serve a risolvere i problemi che abbiamo dentro di noi.
Osservare le tue sculture in un ambiente così opulento ti ha svelato qualcosa che non ti aspettavi?
La mostra mi ha rivelato come le mie opere dialoghino molto bene con questi spazi così ricchi, barocchi. Questo svela anche il senso del barocco insito nelle mie opere, che evidentemente lo spazio ha messo in risalto, il gusto per l’iperbole, per l’esasperazione dei temi, sospesi tra incubo e realtà, elementi che nel mio lavoro sono sempre presenti.
Quale la speranza per il futuro, per il futuro delle prossime generazioni?
Non vorrei parlare di speranza, preferisco parlare di consapevolezza. Di sapersi ancora porsi degli interrogativi, delle domande. Ai miei figli quello che tento di dare, in modo più viscerale possibile, è l’amore. Per il resto richiamo ad una riflessione sull’impegno civile nella nostra società, sull’urgenza che molte domande portano con sé.
Dopo trent’anni le tue domande sono ancora le stesse?
Se possibile sono aumentate di numero, è peggiorata la visione generale delle cose. Ci siamo illusi che alcune dinamiche politiche potessero cambiare e invece non è stato così. Oggi non sappiamo neanche chi sia il nemico, forse è da cercare dentro ciascuno di noi, con onesta lucidità.
Per Info
Paolo Grassino_T30
Palazzo Saluzzo Paesana, Torino