Il Museo Ettore Fico presenta, fino al 26 giugno 2022, la mostra personale di Luca Pignatelli.
Gli imponenti spazi del Museo Ettore Fico, nel loro candido e magniloquente rigore architettonico, ben si prestano ad accogliere l’importante antologica di Luca Pignatelli, (circa cinquanta opere che ripercorrono gli ultimi anni della sua ricerca artistica) qui articolata in un racconto ritmato ed elegante, cadenzato nella scelta di temi e dei soggetti e crescente nell’intensità emozionale, sino alla grande sala dominata dal volto dell’imperatore Caligola, inondato di luce, che attende il visitatore, alla fine del percorso.
Le grandi tele di Pignatelli, alcune di esse veri e propri “teleri” di secentesca memoria, appaiono nelle sale e lungo il corridoio come improvvisi svelamenti o brani di un discorso ininterrotto, in cui si alternano e sovrappongono molteplicità di chiavi di lettura, da quella cronologica a quella tematica, dalla predominanza dell’impatto cromatico a quello materico “povero” del supporto riutilizzato (lamiere, legni, teloni), che parla di stazioni, sacchi, ferrovie, materiali “sporchi” solo in apparente contrasto con la purezza dell’immagine classica (teste scultoree, imperatori, statue di divinità mitologiche greche e romane), da sempre soggetto privilegiato dei suoi lavori. Le immagini della classicità stampate in grandi dimensioni su altrettanto grandi superfici, spesso decisamente fuori scala e sfumate come per una patina lasciata dai secoli, sono per Pignatelli un vero e proprio “linguaggio”, codice semantico che lo rende riconoscibile e unico, collettivo e personalissimo (come non pensare all’omaggio al padre Ercole, noto artista, e al figlio che ne tramanda il nome?); a queste l’artista accosta opere più recenti, in cui predominano l’astrazione o la veduta, su cui talvolta interviene con oggetti in applicazione.
Per tutte valgono alcune caratteristiche, vere e proprie cifre stilistiche: un raffinato senso per la composizione, la scelta di inserire elementi che afferiscono alla dimensione del collage da un punto di vista cromatico (il rosa intenso rococò scelto, come ci dice l’artista, per un volto di una musa, che trasferisce l’estetica generale dell’immagine in pieno Settecento), materico (la lastra dorata di un’antica cappella dismessa nell’opera “La Lotta” del 2017, e prontamente recuperata dall’artista come supporto luminescente, come un grande gioiello), addirittura oggettuale (gli orologi da taschino come gocce di pioggia sulla veduta di New York, o le piume di cristallo di un antico lampadario per la Diana cacciatrice, omaggio alla tradizione venatoria della città di Torino, antica capitale sabauda).
Un collage di matrice concettuale che si fa materia concreta, mai fine a sé stesso anche quando l’opera è aniconica e rimanda all’archeologia più recente, quella industriale e post bellica, evocata dai rammendi, dagli strappi, dalle sovrapposizioni, dai toni caldi del verde, del marrone dei sacchi, del nero della fuliggine, persino nelle scritte novecentesche originali ed evidenziate, che rimandano, nel carattere littorio, alle iscrizioni latine, cortocircuito perfetto.
Difficile definire le opere di Pignatelli: non quadri, ma opere installative che raccontano un processo creativo che procede per addizione, sovrapposizione, talvolta addirittura per sfondamento (il foro che attraversa il quadro, quasi un riferimento ad uno stargate temporale): un processo leggibile da prospettive diverse, convergenti su un risultato unico, avvolgente, empatico: una dimensione che evoca un silenzio ovattato, di incanto.
L’equilibrio raggiunto si traduce con un colpo al cuore per lo spettatore, poiché tocca corde dell’inconscio grazie al rimando a categorie di Bellezza Universale rappresentate dall’iconografia classsica, un’Idea del Bello che ognuno riconosce come elemento radicato nel proprio vissuto; curiosamente, il fatto che le immagini di statue siano tutte espresse nella dimensione bidimensionale – e non tridimensionale, come sarebbe più naturale – non crea nessun stupore in chi osserva, come se fosse assolutamente normale ricordarle così nel nostro personale archivio visivo: nella memoria anche le statue hanno un unico punto di vista.
Ma è il Tempo qui il vero protagonista, l’idea stessa che ne abbiamo e con la quale cerchiamo di relazionarci con la realtà, scoprendo sempre di più che esso è liquido, non più che una convenzione necessaria; la celebre frase di Sant’Agostino: “[…] Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so.”, bene esprime quel senso di straniamento che si ha davanti alle sue opere: le classificazioni temporali sono azzerate in un presente continuo, di dolce melanconia, un tempo assoluto, antichissimo e contemporaneo, che affonda le radici in un passato (lontano, recente, solo ieri?) che ancora ci parla con grazia, in cui ancora ci riconosciamo senza esitazione.
La mostra è curata da Luca Beatrice e realizzata in collaborazione con la Galleria Poggiali. In catalogo è pubblicato un lungo dialogo fra l’artista e il curatore, insieme ai testi di Gaspare Luigi Marcone e Sergio Risaliti.
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Museo Ettore Fico