Il Museo del Risorgimento italiano, sito in Palazzo Carignano nel cuore storico di Torino, vive una nuova giovinezza grazie a politiche culturali che lo hanno aperto alla città. Ne parliamo con il direttore Ferruccio Martinotti, da più di due anni alla direzione dell’istituzione.
Palazzo Carignano è un edificio maestoso e curioso, caratterizzato da una doppia identità architettonica: a volute barocche (che nascondono una torre ellittica arretrata rispetto alla facciata) e mattoni rossi, capolavoro di Guarino Guarini dell’ultimo quarto del XVII secolo sulla piazza omonima; anima bianca e eclettico-neoclassica su Piazza Carlo Alberto, a seguito dell’ampliamento tra il 1864 e il 1871 su progetto di Domenico Ferri e Giuseppe Bollati.
Dal 1878 ospita il Museo nazionale del Risorgimento italiano: amato dal turismo italiano e straniero, il Museo è il più il più antico e il più importante dedicato al Risorgimento e l’unico che abbia il titolo di “Nazionale”, riconoscimento ottenuto grazie al regio decreto nº 360 dell’8 dicembre 1901. Fu in questo palazzo che avvennero due fatti di primaria importanza per il nostro paese, la lettura del proclama in cui il Principe reggente per conto di Carlo Felice, Carlo Alberto di Savoia-Carignano, concedeva lo Statuto e la seduta in cui il re di Sardegna e Duca di SavoiaVittorio Emanuele II (che nel palazzo vide la luce) proclamava la nascita del Regno d’Italia. Subito dopo le Olimpiadi di Torino del 2006 il museo è stato chiuso per lavori di restauro e di riallestimento della parte espositiva. La riapertura è avvenuta il 18 marzo 2011 in occasione dei festeggiamenti per il 150º anniversario dell’Unità d’Italia alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dal 2016 la direzione è stata assunta da Ferruccio Martinotti, sincera passione per l’arte e la cultura e importante curriculum manageriale messo a servizio della res pubblica.
Con Martinotti parliamo del museo, a partire dall’evidente cambio di passo che ha portato ad aumentare del 20% i visitatori in poco più di due anni. Un risultato che certamente si deve ad un’apertura verso l’esterno: il museo, con le sue sale sontuose (in primis quella destinata alla Camera del Parlamento Italiano affrescata da Francesco Gonin, sfortunatamente mai utilizzata per questo scopo) è diventato luogo di mostre temporanee e luogo istituzionale adatto ad ospitare importanti appuntamenti cittadini – dall’apertura del Saone del Libro alle conferenze di Torino Spiritualità. Anche la sala cinema del museo è stata aperta al pubblico per una rassegna cinematografica curata dal direttore e dal regista Davide Ferrario – in collaborazione con il museo del Cinema – sui film dedicati al Risorgimento.ù
Tutte iniziative che hanno avuto grande successo di pubblico e hanno contribuito a rendere ancora più attrattivo il museo. Negli ultimi due anni persino il ciclone Artissima ha investito il Museo con risultati di grande suggestione: l’intervista avviene nella Sala dei Plebisciti, inaspettatamente davanti a Life of Forms, opera monumentale dell’artista americana Nathlie Provosty, grandi campiture cromatiche scure che invadono e avvolgono lo spazio, anche grazie alla musica composta da Andrea Costa che aggiunge una coinvolgente dimensione sonora.
Ci troviamo nella Sala dei Plebisciti del Museo del Risorgimento Italiano, sottoposto negli ultimi due anni ad una vera e propria sterzata che l’ha reso più attrattivo agli occhi del pubblico e ha moltiplicato gli accessi. Alle spalle del direttore c’è un’opera che non ti aspetti, un’installazione di arte contemporanea: direttore, partirei da qui…
L’installazione alle mie spalle è la raffigurazione plastica del cambiamento è un’opera di Nathlie Provosty, pittrice americana, progetto che abbiamo accolto nell’ambito di Artissima con la collaborazione della galleria Apalazzogallery di Brescia (l’anno scorso avevamo ospitato un’opera di Martino Gamper); anche quest’anno abbiamo deciso di ospitare un’installazione di arte contemporanea fino al 6 gennaio. Questo è uno degli esempi di un panel di nuove attività che ha lo scopo di aprire il museo a nuovi pubblici, senza violarne la sua identità.
In pochi anni sono aumentati in modo significativo i numeri dei visitatori del museo; qual è il visitatore tipo del Museo del Risorgimento?
Non sono un grande appassionato di classifiche museali (pensavo che il peggio fossero quelle dei libri…) Mi spiego: è corretto considerare questo tipo di indicatori per valutare l’idea dimensionale di un Museo e del suo grado di attrazione, ma ci deve essere altro: sappiamo che il Louvre ha nove milioni di visitatori l’anno, il Museo del Risorgimento 160.000, ma l’elemento quantitativo non può e non deve essere l’unico discrimine. Il nostro visitatore tipo oggi ha un profilo sfumato: se in passato poteva essere il torinese un po’ agée (ed è sempre benvenuto!) oggi il suo profilo è osmotico: non abbiamo più un archetipo, stiamo lavorando proprio in questa direzione, penso a tutti i giovani coinvolti con progetti a loro dedicati, come gli studenti dello IED, o i nuovi pubblici che stanno scoprendo il museo come luogo dove avvengono molte diverse attività che afferiscono alla musica, alla letteratura, al cinema.
Lei proviene dal mondo manageriale. Oggi la gestione del museo è un’impresa manageriale e culturale allo stesso tempo, e richiede anche una formazione di questo tipo: il museo è dunque equiparabile ad un’azienda?
In questo, data la mia esperienza, sono al di sotto di ogni sospetto e rischio di apparire colui che tira inevitabilmente acqua al suo mulino: a mio parere le competenze manageriali sono imprescindibili per qualsiasi entità che abbia un conto economico e un bilancio d’esercizio, che tu gestisca una ferramenta, la Nasa o un museo. Detto questo conosco eccellenti manager incontrati nei miei 25 anni di attività come direttore d’azienda ai quali non affiderei un museo. Serve una passione reale, servono delle skills culturali, altrimenti sei un algido applicatore di formule: fortunatamente non può bastare questo per condurre un’impresa culturale.
A questo forse va aggiunto uno spirito civico…
Ho avuto modo di affermarlo al momento della mia nomina due anni e mezzo fa: la mia scelta è stata guidata anche dal desiderio di mettere la mia – piccola -competenza a disposizione della cosa pubblica: se tutti ci chiamiamo fuori perché non abbiamo tempo o altrove guadagniamo di più, non possiamo poi lamentarci…
Ha anche rilanciato uno spazio per le mostre temporanee, come per la mostra Dai ‘60s ai ‘60s. Un secolo dopo l’Unità d’Italia, la Pop Art, co-curata con Luca Beatrice, che ha avuto ottimi riscontri in termini di pubblico e critica o Arma il prossimo tuo, interamente prodotta dalla Fujiflim.
Uno degli aspetti che non ha prezzo in questo mestiere è quello di poter applicare anche quelle che sono le proprie passioni. Pur con l’umiltà di approcciare un mondo nuovo avevo chiaro che avrei voluto delle mostre che raccontassero storie nuove, dove il protagonista rimanesse sempre il Museo: questo per me è un aspetto non negoziabile. Dai ‘60s ai ‘60s è una mostra che rimarrà nel mio cuore perché è stata la prima mostra sotto la mia direzione e la prima co-curata insieme all’ amico e ottimo professionista Luca Beatrice. Questa mostra è stata un po’ un paradigma di una nuova visione: abbiamo giocato intellettualmente nel far dialogare i due decenni, gli anni ’60 dell’Ottocento e gli anni ’60 del Novecento. Abbiamo individuato analogie curiose, sono stati entrambi due decenni luminosi, l’Unità d’Italia da una parte, il boom economico dall’altra, e al contempo molte ombre: quando l’Unità d’Italia è stata proclamata il paese aveva un tasso altissimo di analfabetismo, era pressoché privo di infrastrutture; sappiamo peraltro che negli anni ‘60, a fianco delle colonne di automobili sulle autostrade delle vacanze, incominciavano a proiettarsi le prime ombre di quella che sarebbe stata la stagione del terrorismo. Una mostra che è stata apprezzata anche dalla critica: il successo di questa mostra ha fatto conoscere il Museo sotto una nuova prospettiva, sono arrivate nuove occasioni di coinvolgimento dei privati. Siamo riusciti a offrire un luogo adeguato all’interno del percorso museale, individuando quello che ora è a tutti gli effetti il nostro spazio istituzionale per le mostre temporanee (il grande corridoio vetrato che dà sul cortile interno di Palazzo Carignano n.d.r.) accattivante anche per manifestazioni prodotte e finanziate da privati come nel caso di Fujifilm Italia per la mostra Arma il prossimo tuo.
Qual è il senso oggi del Museo del Risorgimento, cosa vorrebbe che il visitatore portasse con sé dopo questa esperienza?
Non sono uno storico, ho una formazione di tipo giuridico, ma ci sono due elementi che sono incontrovertibili: qui è passata la Storia con s maiuscola. Il cuore del nostro percorso museale è la Camera Parlamento Subalpino: quella è stata la prima assemblea elettiva del nostro paese. Noi l’abbiamo aperta al pubblico un weekend all’anno (il 17 marzo, giorno della proclamazione del Regno d’Italia, n.d.r.) dopo trent’anni che era stata chiusa. L’emozione della gente nel vedere le targhe che ricordano Garibaldi, Cavour, Quintino Sella è sincera, e il luogo è davvero di grandissimo pregio architettonico e artistico. La seconda considerazione è che qui si è generata la contemporaneità. Molti mi hanno chiesto il perché ospitare qui l’arte contemporanea. Rispondo che se qui si è generata la contemporaneità, qui si deve poter anche dialogare con la contemporaneità, che può voler dire Nathaly Provost, il Salone del Libro, Torino Spiritualità, o altro.
Quali i progetti per il 2019?
Nel prossimo anno abbiamo un ricco cartellone: subito a gennaio festeggeremo il maestro Ezio Gribaudo che compie 90 anni mostrando al pubblico tre opere monumentali che realizzò in occasione dei 100 anni dell’Unità d’Italia proprio per il Museo del Risorgimento: Sollevazione del popolo a Milano, Gli impiccati di Belfiore e Pier Fortunato Calvi; proseguiremo con una mostra fotografica prodotta interamente all’esterno che ha un concept molto interessante. Nelle mie scelte cerco di non sfilarmi la giacca da visitatore, sono e resto un appassionato fruitore museale, per cui scelgo progetti che reputo appassionanti da vedere e che abbiano sempre coerenza con il luogo. La mostra si intitola Trasmissions e ha il suo concept nella trasmissione, oggi, dei mestieri manuali, che possono andare dalla calafatura delle gondole a Venezia alla costruzione delle pareti di carta di tè in Giappone, alla smaltatura delle ceramica di Sèvres. Nel terzo millennio ci sono ancora dei mestieri preziosi che sono eseguiti manualmente e la cui trasmissione avviene in un’ottica di magistero, di recupero e trasmissione della tradizione. In autunno, grazie alla mia ottima squadra di collaboratori, presenteremo una mostra prodotta dal museo su una figura particolare che è Luigi Amedeo di Savoia Duca degli Abruzzi. Il Duca è stato un esploratore straordinario, ha viaggiato Asia, in Africa, al Polo Nord, ha compiuto la circumnavigazione del globo: mostreremo le foto originali provenienti dal suo archivio che è in parte conservato qui. Una figura di estrema modernità che sono certo il pubblico avrà modo di apprezzare.
Museo del Risorgimento Italiano
Piazza Carlo Alberto
Torino