Incontriamo il Maestro Giampaolo Babetto in occasione della sua personale Segno e Luce presso la Basilica di San Giorgio Maggiore a Venezia, sino al 3 aprile.
La mostra nasce su invito dell’abate Stefano Visintin o.s.b. e dei monaci benedettini che da anni, nell’ambito delle attività culturali della Benedicti Claustra, ramo onlus della comunità monastica, accolgono nella splendida Basilica Palladiana della metà del XVI secolo installazioni e interventi di arte contemporanea dei più noti artisti internazionali, tra i quali Anish Kapoor, Jaume Plensa, Michelangelo Pistoletto, Not Vital. Nello splendido contesto del Coro Maggiore in legno fittamente intagliato, realizzato dall’artista fiammingo Albert van den Brulle nel 1598, il maestro padovano ha presentato un’opera inedita che evoca, con grande maestria, l’Albero di Jesse, visione della genealogia di Gesù: un grande ramo ricoperto in foglia oro appoggiato su una base pigmentata blu “Ercolano” (ricorrente nella pratica di Babetto, che pare capovolgere il cielo in terra e conferisce nuova profondità all’installazione arborea: visione concettuale e Natura a ricordarci la nostra ascendenza umana e il nostro stretto rapporto con il divino. La mostra coinvolge alcuni altari della Basilica con l’installazione di vetri specificatamente realizzati per l’occasione e suggestivamente retroilluminati, una selezioni di disegni storici dall’archivio del maestro e una ricca esposizione di gioielli, manufatti, sculture e arredi liturgici che coinvolge gli spazi della maestosa Sagrestia.
La mostra è curata da Andrea Nante, storico dell’arte e direttore del Museo Diocesano di Padova, e Carmelo Grasso, direttore e curatore istituzionale Benedicti Claustra onlus (che ci ha accolto con estrema disponibilità negli spazi della Basilica), con la collaborazione di Caterina Tognon arte contemporanea, Venezia.
Giampaolo Babetto non ha bisogno di presentazioni: il suo è un nome con cui si identifica immediatamente e a livello internazionale l’eccellenza in campo orafo e non solo, con riferimento alla cosiddetta “Scuola di Padova”, una comunità intellettuale e formativa nata intorno all’Istituto Statale d’Arte “Pietro Selvatico” e alla carismatica figura del Maestro Mario Pinton che ne divenne il preside. La sua carriera è stata segnata da premi e riconoscimenti internazionali, numerose le mostre in Italia e all’estero, importanti le committenze pubbliche e private. I suoi gioielli, inclusa una vera e propria costellazione progettuale di opere che spazia dalla scultura ai manufatti, dai mobili ai progetti architettonici alle installazioni in situ, figurano nelle collezioni permanenti di musei e istituzioni culturali. Ha svolto docenze nei più prestigiosi istituti del mondo, a partire dal Pietro Salvatico dove ha ereditato la cattedra dello stesso Pinton, sino ad essere invitato in Università e Scuole d’arte in Olanda, Germania, Stati Uniti, Inghilterra, Austria, Australia.
Il Maestro Babetto ci accompagna in una visita guidata in cui si sofferma a raccontare con dovizia di dettagli tecnici e intensità emotiva le singole opere, in un ideale racconto che si dimostra ricco di aneddoti, riflessioni, considerazioni sull’Arte. Particolarmente emozionante è stato assistere al movimento delle mani del Maestro, che in parallelo al racconto disegnavano nell’aria un dettaglio, evocavano una tecnica, una forma, dichiarando una naturale circolazione d’idee tra il pensiero e l’atto del fare.
Maestro, come è strutturata la mostra?
Per questa esposizione, che si distribuisce nei diversi ambienti della Chiesa, non c’è un vero e proprio percorso cronologico, non volevo un’impostazione didascalica: desideravo che la creatività emergesse libera nelle varie espressioni, dal disegno, alle sculture in vetro, ai gioielli, agli arredi liturgici. Anche per quanto riguarda lo spazio della Sacrestia, in cui sono esposti in special modo gioielli e manufatti, ho pensato di scomporre l’ordinamento delle opere nelle vetrine come una sorta di “caos ordinato”, il punto focale da cui si irradia tutto l’allestimento è visivamente posto al centro, sull’altare: l’ostensorio, per come è stato concepito, dà l’idea della mostra stessa: diversi elementi cromatici si espandono progressivamente sui raggi, e idealmente nello spazio circostante: i gioielli e le opere sono da leggersi come propagazioni dal centro, dando la dimensione concettuale della creatività stessa che si espande e si concretizza in espressioni diverse le une dalle altre. Nelle bacheche poste sui mobili perimetrali della sacrestia ho esposto rami in fusione, croci processionali, calici liturgici posti vicino a contenitori metallici dalle forme essenziali che evocano una possibile funzione religiosa, ma anche una corteccia d’albero dorata, un galestro (la pietra argillosa che si trova principalmente nelle vigne) ricoperta in argento, o il modello per una corona per il Bambin Gesù… l’importante è la forza espressiva che comunica l’oggetto. Ad esempio ho realizzato un pendente partendo da un semplicissimo legaccio di ferro che in laboratorio si usa per tenere fermo un bracciale quando lo saldi, e secondo me è una delle cose più belle che ho fatto!
A questo proposito, da dove trae ispirazione per le sue opere?
Da tutto. Anche l’opera stessa, mentre la stai realizzando, ispira il processo stesso del “fare”; personalmente traggo molta ispirazione da tutto ciò che osservo o ascolto, un’opera d’arte, un film, un brano musicale…In realtà è proprio quel quid che mi affascina, ma che non riesco pienamente ad afferrare o definire, ciò che mi interessa: prendiamo Pontormo e gli affreschi del ciclo della Certosa del Galluzzo, che sono stati per me grande fonte di ispirazione per molti miei lavori più “figurativi”: gli affreschi sono consumati dal tempo, si vedono solo macchie di colore, ma si intuisce bene la forma, la linea del disegno, nonostante sia venuto meno il dettaglio pittorico.
Questa per me è l’essenza stessa dell’Arte: ciò che rimane oltre il Tempo, che l’artista, Pontormo in questo caso, è riuscito a trasmettere, la sua vera anima d’artista. E per questo ho sempre giocato sulla finzione ottica, sul contrasto tra pieno e vuoto, sull’illusione visiva, sui pesi, leggerissimi e pesantissimi, tutti elementi che conducono a pensare a ciò che non si vede ma si percepisce, all’invisibile, alla tensione del non detto. Alla potenza in atto. Ed è questo non detto che mi porta alla dimensione spirituale, a cui sempre giungo con il mio lavoro, pur partendo da premesse concrete, tecniche.
Ci sono come due anime nel suo lavoro, un aspetto rigoroso, influenzato dall’architettura, dalla geometria… e poi c’è un aspetto più poetico, quasi dirompente nel suo voler emergere…ce ne può parlare?
Sì, c’è una tensione tra due forze: nel mio lavoro cerco la proporzione e la geometria, mi muovo partendo dal calcolo dei rapporti matematici; non mi interessa il decorativismo fino a sé stesso, lavoro per sottrazione, tutto è tenuto sotto stretto controllo e porto ai limiti il materiale che impiego, cercando anche di rendere invisibili all’occhio le soluzioni che ho adottato. Allo stesso tempo percepisco una spinta dal mio io più profondo, una dimensione interiore che erompe nelle mie opere attraverso un dettaglio, un’anomalia, un colore improvviso, uno scarto, una soluzione inaspettata.
Come è nato questo suo interesse per le opere a carattere religioso e l’arredo liturgico?
Sono diversi anni ormai che ho collaborazioni con diverse Istituzioni religiose per specifiche committenze: nel 2010, in seguito ad una mostra presso la Galerie Fred Jahn di Monaco di Baviera, dove esponevo alcuni vasi in metallo, sono stato contattato dal Rettore della Chiesa di San Michael di Monaco che mi ha chiesto di realizzare delle ciotole per servire Messa e l’Ostensorio, qui esposto. È stata una sfida interessante poiché ho dovuto entrare in contatto con la mia idea di spiritualità, immergendomi in me stesso; per questa mostra ho deciso di esporre molti croci realizzate nel corso degli anni, diversissime le une dalle altre per tratto, materiale impiegato, dimensione: la croce è un simbolo potentissimo, è immagine stessa del Cristianesimo e allo stesso tempo è interessante dal punto di vista di vista geometrico – architettonico, perché sono due semplici semirette che si intersecano e creano angoli, spigoli, proporzioni…Nel tempo ho sviluppato anche un particolare interesse per il Crocifisso, specialmente i crocefissi medioevali e rinascimentali, lignei o dipinti, da cui ho tratto ispirazioni per altre croci spille e gioielli a carattere figurativo, evidenziando alcuni dettagli, come le mani. Penso in particolare al Crocifisso di Masaccio in Santa Maria Novella o al Crocifisso ligneo della Chiesa dei Servi in Padova attribuito a Donatello.
Nel 2015 ho realizzato i candelabri, il calice e la patena per la Dick Sheppard Chapel della chiesa di St Martin-in-the-Fields, a Londra. Due anni prima, nel 2013, è stata organizzata una grande mostra personale per il Museo Diocesano di Padova e in quell’occasione ho presentato molte opere a carattere religioso, incluso un progetto particolare, che ho deciso di esporre anche qui a San Giorgio, un modulo architettonico cubico, uno spazio vuoto che invitasse alla meditazione: un’architettura vuota il cui accesso è nel sottosuolo: quando entri sei immerso nello spazio sulle pareti sono incise, sottilissime, delle croci, squarci che fanno passare la luce e ne disegnano la silhouette. Un taglio che fa passare, con la lama di luce, l’Idea stessa dell’Infinito. Una stanza tutta per sé che in realtà è immagine del “dentro di sé”.
Il cubo in argento inciso sui lati, progetto per luogo di raccoglimento, mi fa pensare alla cappella aconfessionale di Rotcko a Houston, di cui lo scorso anno si sono celebrati i 50 anni dalla sua apertura… Quando influisce l’Arte su di lei e sul suo lavoro?
Mi è sempre piaciuta l’Arte, frequentare mostre, viaggiare…ricordo che da ragazzo la prima mostra che sono andato a visitare dopo un viaggio in Olanda è stata la personale di Mark Rothko a Ca’ Pesaro a Venezia: un effetto incredibile, i suoi dipinti erano inseriti in uno spazio delabré e l’allestimento metteva ancora di più in risalto la sua pittura…ricordo che l’artista era appena scomparso, io sono rimasto profondamente colpito, non riuscivo più a dimenticare l’impressione che ho ricevuto dalla contemplazione delle sue opere. Le suggestioni che ricevo dagli artisti che ammiro le trasferisco nelle mie opere in modo fluido: penso all’anello realizzato guardando al basamento realizzato da Carlo Scarpa per Cangrande della Scala a Castelvecchio a Verona, (l’opera di Babetto è stata messa in dialogo con le architettura di Carlo Scarpa in più occasioni, recentemente nella mostra “Corpo, Movimento Struttura”, al Maxxi di Roma n.d.r.) o agli orecchini ispirati alle foglie di alloro negli affreschi di Pontormo, o, ancora, ai tagli nelle lamine che richiamano Lucio Fontana….
Altre volte ho usato le caratteristiche dei diversi materiali per richiamare le differenze tonali della pittura: per evocare i colori della Deposizione di Santa Felicita o dell’affresco di Vertumno e Pomona nella Villa di Poggio a Caiano presso Firenze realizzati da Pontormo (da dove ho tratto anche le spille sagomate col soggetto dei putti) ho usato il rame, l’argento, oro giallo, l’oro bianco….
Pontormo è straordinario, se io cerco di arrivare all’equilibrio e all’armonia con lo studio dei rapporti matematici, lui ci arriva con la figurazione, l’eleganza delle proporzioni e la raffinatezza dei contorni. La stessa eleganza che ho trovato nelle figure dei saltatori di tori del Palazzo di Cnosso a Creta risalenti al 1600 A.C. e che ho tradotto in sagome per spille.
Il taglio nella lamina torna spesso nel suo lavoro, quasi come una ferita…
È l’apertura verso un’altra dimensione, l’idea stessa di Infinito data dal segno sulla materia; l’Infinito può essere espresso in molti modi, anche attraverso il trattamento stesso della materia: ad esempio puoi trovarlo in una spilla che ho ricavato da una lamina in oro molto più grande; la superficie è molto lucida tanto da sembrare sciolta: dopo averla lavorata battuta, indurita, modellata, ho tagliato la lamina per “fermarla” nel Tempo e nello Spazio. Un’opera senza contorni, cristallizzata, potenzialmente infinita. Anche le cortecce che tornano spesso nei miei lavori, così come gli alberi e i rami che realizzo in fusione (dandogli dunque un altro peso specifico) o ricopro in foglia d’oro, sono lacerti di Natura, eleganti nella loro forma dai contorni indefiniti, su cui io opero dei tagli, delle fratture. Vi sono poi le spille in oro giallo che rappresentano mani affusolate, quasi astratte, che possono essere lette come rami sottilissimi, tormentati: un’idea di biomorfismo, di metamorfosi tra Uomo e Natura che mi affascina, come si vede dai numerosi disegni che ho dedicato nei decenni a questo tema e che i curatori hanno scelto di esporre in mostra nel corridoio che conduce ai locali della sacrestia.
I vasi e le coppe sono invece oggetti semplici ma di grande impatto, nati tutti con lo stesso procedimento che ho applicato anche nella realizzazione di alcuni gioielli: questo processo di formatura inizia dalla lavorazione di una forma circolare, di decimi di millimetro, che si batte più volte a spirale attorno alla superficie prima di arrivare alla forma finale, più o meno concava, dura e allo stesso tempo leggerissima.
Quando ha iniziato?
Nel 1966, quando stavo finendo l’istituto d’Arte, dove ho seguito l’indirizzo di architettura e quello di arte dei metalli, ho realizzato il primo gioiello, e ho capito che quello poteva essere davvero un campo di sperimentazione; poi, nel 1969, quando Mario Pinton è diventato preside dell’istituto Pietro Selvatico di Padova, ha lasciato vacante la sua cattedra di Disegno Professionale e Progettazione per l’Arte dei Metalli, che è stata affidata a me. Mi è sempre piaciuto insegnare, ho insegnato al Selvatico sino all’ ‘83, ma nel tempo ho avuto l’occasione di insegnare anche in molte istituzioni in Italia e all’estero. Tra i miei primi anelli esposti in mostra c’è quello costituito da molte lamelle quadrate trattenute da due piccoli perni del 1969; altri gioielli li avevo esposti in una delle mie prime personali a Roma nel 1974, mostra che ha suscitato l’interesse di galleristi del Nord Europa e che mi hanno portato a realizzare mostre in Germania e in Olanda: lì ho capito che questa poteva davvero essere la mia strada.
Tra le opere “storiche” vi sono le collane composte da moduli a cubo vuoto, incernierati gli uni agli altri singolarmente e per questo mobilissimi, sui quali ho applicato colori pigmentati in polvere, come il rosso, il verde, il blu Ercolano o il blu Kline; una collana dei primi anni ‘70 è composta da moduli quadrati in oro giallo alternati a moduli in niello neri e questa differenza crea un’ombreggiatura che ne raddoppia il volume. Ho esposto anche la spilla Josephine dedicata a Josephine Baker, lavorata a niello con la sigaretta in oro bianco e topazi e una grande collana in oro che si muove in tutti le direzioni perché ogni elemento che la compone è imperniato e incernierato al successivo: come elementi di una croce scomposti.
Per le spille che ho chiamato “Martiri” ho preso una sottile lastra in oro bianco, molto tenace ed elastica, l’ho piegata e l’ho infilzata con molti pernetti; ho lasciato in evidenza le tracce del fuoco, fatto che permette anche di esaltare la qualità del materiale. Ho trattato alcune lamine come se fossero carte ripiegate, lasciando evidenti i segni della plicatura, che in realtà è realizzata incidendo la lastra sul retro, un vero e proprio trompe d’oeil: amo molto il senso di pulizia, il minimalismo delle forme, ma, allo stesso tempo, come ho già accennato, mi interessa l’andare oltre, l’anomalia, l’irregolarità, come la spilla dipinta con un pennarello blu o quella realizzata partendo dalla plastica riscaldata ma con tutta la struttura di sostegno in oro…tanti mi dicono che le mie opere son più belle dietro, cosa che mi diverte (ride n.dr.)! In effetti amo molto lavorare le lamine “capovolgendole” poiché l’effetto della linea tagliata o seghettata rimane molto più vibrante.
Al pari delle illusioni ottiche ricorro spesso alle forme “schiacciate” dalla prospettiva falsata, sottolineata da una certa distanza dalla base che consente l’ombra riportata, o ancora gli stiacciati, i bassorilievi finissimi che giocano, nuovamente, sul ruolo nodale dell’ombra riportata. Punto anche talvolta sull’introduzione inaspettata del colore oppure decisamente finalizzata ad un messaggio come la spilla argomentata in tre sezioni con i colori della bandiera, bianco rosso e verde, che ho dedicato ai 150 anni dell’Unità d’Italia: poiché assomiglia nella forma ad una scala, un critico tedesco ci ha visto chiaramente un riferimento alla “Scala Napoletana” di Joseph Beyus!
Le opere collocate sugli altari della Basilica sono quasi un omaggio al genius loci di Venezia, il vetro…Come è stato lavorare con questo materiale?
In realtà ho lavorato con il vetro già in passato ma in questo caso volevo trattarlo in modo non convenzionale… quando affronto un materiale desidero arrivare a capire come poterlo utilizzare sino al suo limite, nella fattispecie non mi interessava lavorare sulla soffiatura; ho utilizzato una modello in cera e poi abbiamo colato il vetro fuso per ottenere masse vetrose dense, talmente dense che è stato necessario anche un mese e mezzo solo per raffreddarle: pesano circa 60 chili l’una, anche se l’aspetto richiama una resina gelatinosa, certamente più leggera: la croce incisa che si staglia luminosa è stata disegnata con la sega diamantata. L’effetto finale è quello che desideravo, la dimensione stessa della luce è stata catturata nel vetro.
Che consigli darebbe ad un giovane che volesse fare l’orafo?
Di lavorare senza sosta: la tecnica si raggiunge solo con moltissima pratica e tanta tenacia. Bisogna essere molto focalizzati su quello che si ricerca e avere coraggio di indagare se’ stessi, non pensare di avere subito successo perché per questo ci vuole tanta costanza e anche un po’ di fortuna.
Quanto tempo dedica al lavoro in laboratorio?
La pratica orafa richiede una grande costanza e dedizione, ancora oggi lavoro tantissimo, almeno 8 ore al giorno e spesso anche di notte. Mi preparo anche il materiale, parto dall’oro puro e realizzo tutto in autonomia.
Ha sempre in mente l’idea dell’opera finita?
Sì, i miei disegni non sono mai progettuali ma piuttosto fonti di ispirazione. In realtà parto sempre da un’idea, da una visione, una traccia abbastanza definita, ma è soltanto durante l’esecuzione che ne comprendo la direzione; l’importante è sapersi fermare al momento di tensione massima, devi capire qual è il senso ultimo della tua ricerca, averla bene chiara in mente.
Una domanda apparentemente banale ma necessaria: che cos’è il gioiello per lei?
Il gioiello acquisisce il suo senso più profondo quando è indossato e assolve la funzione di adornare il corpo. Mentre lavoro non penso mai al corpo, non penso mai a qualcuno in particolare, però è proprio quando viene indossato che acquisisce significato…se no è qualcos’altro, una architettura o una scultura in miniatura. In ogni caso non amo le categorie costituite, non è questo che conta: tutto è Arte!
PER INFO
Giampaolo Babetto
Abbazia San Giorgio Maggiore _ Venezia
sino al 3 aprile 2022 http://www.abbaziasangiorgio.it/giampaolo-babetto-segno-e-luce/