Fabio Viale torna ad esporre a Firenze con due installazioni pensate per la Galleria Poggiali: Acqua Alta per la sede di Via della Scala, Root’la nello spazio nella vicina Via Benedetta.
Fabio Viale (Cuneo, 1975) ci ha abituato in quasi vent’anni di strenuo corpo a corpo con la scultura – in marmo, spesso di grande dimensioni, con tutto ciò che questo fisicamente e mentalmente comporta – ad occupare lo spazio con repentini scarti di pensiero che portano l’idea stessa della scultura a diventare altro da sé: se non proprio uno strumento, un elemento di una visione più ampia dove l’estetica e la perizia tecnica hanno certamente un ruolo nodale (e si affinano di anno in anno) ma non sempre sono l’unico elemento catalizzatore: il palcoscenico è condiviso con la necessità di porgere al pubblico una leva mentale per indurre riflessioni, suggerire esperienze apparentemente impossibili, (la barca in marmo bianco che galleggia davvero) evocare per assenza, asfaltare pregiudizi, proporre nuovi quesiti, nuove narrazioni: ciò che l’Arte, in una parola, dovrebbe fare.
Il senso di Viale per lo spazio tridimensionale (necessario concettualmente alla scultura per avvallare la sua stessa esistenza) rimane dunque quello di un regista che conosce e gestisce con sapiente disinvoltura meccanismi di causa-effetto, drammaticità, messa in scena, quest’ultima ottenuta spesso per processi di sottrazione: gli spazi di via della Scala sono occupati dall’installazione Acqua Alta, gruppo di sculture che l’artista ha realizzato appositamente per il Padiglione Venezia presso i Giardini nell’ambito della 58a Biennale, sempre con il sostegno della Galleria Poggiali. Si tratta di una dozzina di monoliti in pietra che replicano a misura reale le bricole, i pali in legno di rovere o di castagno che superano i tre metri e che affiorano nella laguna veneziana come segnali per la navigazione. Viale li ha riprodotti, veri più del vero, erosi dall’acqua, consumati, con i solchi nel marmoreo legno marcito e scurito, talvolta a gruppi di tre legati da una catena, a ricordare, per assenza, l’acqua alta che era il tema del Padiglione veneziano. Lì un’installazione multisensoriale immergeva i visitatori in una ambiente realistico grazie a una passerella da attraversare in un ambiente silenzioso, fatto di acqua e nebbia realizzata con teli di plastica leggermente opachi che separavano i visitatori dai pali, ritti fantasmi della laguna, quasi antropomorfi, figure dolenti.
L’allestimento odierno ricorda quello veneziano, a cui si aggiunge, come invisibile ma terribile elemento in sottotraccia, il dato di cronaca della spaventosa acqua alta che ha colpito la città lagunare nell’ autunno scorso, e che ha coinvolto anche l’opera di Viale, oggi in salvo. Ma non è possibile neppure distogliere il ricordo da un’altra inondazione del passato che ha colpito Firenze nel 1966, quando l’Arno superò gli argini e il fiume con tutta la sua furia devastatrice invase il centro cittadino, raggiungendo l’altezza di diversi metri in diversi quartieri, come quello di Santa Croce. Ancora oggi una lapide ricorda la linea dell’acqua in via della Scala e in Piazza Santa Maria Novella, dove furono superati i due metri, deturpando alla base affreschi preziosi e marmi. Inevitabile quindi una riflessione sull’emergenza che stiamo attraversando, quella dell’innalzamento del livello del mare, dei cambiamenti climatici e del progresso incontrollato che ha stravolto equilibri naturali e il paesaggio in ogni parte del mondo. L’allestimento della mostra verte così sulla monumentalità dell’impatto visivo e concettuale, costringendo lo spettatore a stabilire una relazione fisica tra l’uomo e la forza della natura.
La drammaticità di Via della Scala è ulteriormente accentuata nello spazio di Via Benedetta, dove Viale ha scaricato 18 tonnellate di scaglie di pietra e sculture di marmo, catalizzandone l’attenzione dello spettatore con uno sconcerto che diventa meraviglia e che infine lascia la retina quasi senza via di scampo, regalando un’immagine difficilmente dimenticabile (una progressione emotiva non nuova per le opere di Viale)
Si tratta della trasposizione della performance Root’la effettuata dall’artista nella cava Gioia di Colonnata all’inizio di febbraio: un’azione svoltasi nella sezione della cava di marmo chiamata ravaneto, dove l’inutilizzabile come macerie e trucioli respinti durante l’estrazione del marmo vengono tradizionalmente gettati in discesa, creando una pendenza ripida. Ripetendo un gesto meccanico che è stato eseguito per centinaia di anni Viale ha scagliato diverse statue di marmo, in precedenza acquistate: le statue hanno subito crepe e danni che hanno irruvidito, modificato la forma, mutilato delle parti. L’artista ha accompagnato le sculture nella loro caduta verso il basso, assicurandosi che rotolassero fino alla fine del pendio. I manufatti, copie sfigurate rese parzialmente informi, sono stati quindi recuperati e riunite ai sassi di scarto per l’installazione fiorentina.
La genesi del progetto (il nome è un’associazione fonetica e semantica tra la parola Root (“radice” in inglese) e rut’la -“rotola” in dialetto carrarino). ) nasce dalla passione che Viale nutre nei confronti delle cave, la stessa dei grandi artefici del passato. Alla Storia appartiene l’intenzione di usare il ravaneto come imprevedibile utensile di scultura: la caduta a valle ottiene lo scopo di purgare le statue dai difetti, come se ogni colpo, anziché distruggere, definisca al meglio i l loro potenziale espressivo. La disposizione nello spazio di Via Benedetta ricrea quindi una parte del ravaneto, un’ondata di macerie in cui si riconoscono diverse forme scultoree: decadenza e ricostruzione, caduta e redenzione: mentre la pendenza delle macerie ricorda un fiume che porta sulla sua scia interi segmenti di civiltà, il pensiero corre alla riflessione sull’azione del Tempo, che inesorabile, restituisce tutto in polvere. Ben descrive l’installazione Sergio Risaliti, curatore della mostra e direttore del Museo del Novecento di Firenze nel catalogo che accompagna la mostra: […] Le Tre Grazie sono state ridotte a brandelli; un personaggio pittoresco con turbante appare riportato allo stadio grezzo di macigno; un aggraziato Apollo è senza braccia, gambe e testa; un molosso restituito alla natura come sasso di fiume. Il paesaggio può ricordarci un crollo di civiltà, una catastrofe, l’inevitabile tragedia del divenire che tutto riduce in polvere. Nel Rinascimento si soleva rappresentare l’esperienza della caducità e della fine delle civiltà, anche quella di imperi e gloriose dinastie, con immagini e simboli corrispettivi quali colonne spezzate, edifici diruti, sculture rese informi dal lento e inesorabile lavorio del tempo. Il fascino di questi moniti figurativi, dai significati morali riposti, derivava dal contrasto tra la bellezza dei manufatti, la perfezione delle arti e il loro opposto ultimo aspetto in disfacimento. Come se un bel volto rivelasse al contempo lo spettrale e disgustoso aspetto di un cranio in decomposizione[…].
Abbiamo rivolto a Fabio alcune domande
Come è nata l’idea della performance Root’la a cui è seguita l’installazione realizzata per la Galleria Poggiali a Firenze?
Quando si arriva a Carrara e si guarda in alto si vedono come delle montagne innevate. Ma quella non è neve, è marmo, sono scarti di lavorazione di migliaia e migliaia di sassi. La mia idea è stata quella di andare su una di quelle montagne con delle opere e buttarle giù a valle. Lo suggeriva già Michelangelo e dopo di lui Arturo Martini, cioè di usare il ravaneto come se fosse uno strumento di scultura; perché le opere, quando rotolano e cadono a valle, in parte si distruggono e in parte si alterano e si modificano, diventando un tutt’uno con la montagna. È difficile distinguere il sasso da una testa e da questa azione, da questo percorso, si comprende meglio anche la metafora della nostra vita.
L’installazione Acqua Alta che hai presentato al Padiglione Italia nell’ambito dell’ultima edizione della Biennale di Venezia si è rivelata anticipatrice e visionaria di ciò che è successo a Venezia solo pochi mesi dopo, richiamando la fragilità della città e l’emergenza climatica del nostro pianeta. Come hai contestualizzato l’opera a Firenze?
Purtroppo i fatti di Venezia non erano una novità. I cambiamenti climatici che stiamo vivendo ci porteranno nuovamente a dover affrontare questo tipo di emergenza. A Firenze le sculture sono state presentate privandole della cornice, di quella atmosfera che al padiglione Venezia è stata utile per far immergere lo spettatore in una dimensione. In questo modo le sculture divengono totemiche, monumentali e quasi ieratiche. Ma allo stesso tempo i segni lasciati dall’acqua alla loro base ci fanno comprendere che le opere sono vere, testimoniano una realtà che è drammaticamente avvenuta.
Imitazione del vero sino al parossismo e metamorfosi della materia: come si pone la tua ricerca tra questi due estremi?
Quando la scultura utilizza la metamorfosi per manifestarsi produce incanto, una suggestione in cui lo spettatore si cala provando una sorta di piacere quasi atavico che credo ci spieghi uno dei valori che ha portato l’uomo a pensare di creare Arte.
Puoi anticiparci qualche tuo prossimo progetto?
Sto lavorando una grande mostra per Pietrasanta, dove saranno esposte alcune sculture monumentali nella piazza e altre nella chiesa sconsacrata. È un progetto pubblico a cui mi sto dedicando da circa un anno. Per me è una grande sfida, perché frequento quel luogo da quando ho iniziato a scolpire e ogni estate ho guardato con ammirazione alle opere esposte dei grandi artisti.
Qual è il tuo personale rapporto con l’antico?
L’antico è fonte di ispirazione: sono arrivate a noi non delle opere, ma simboli che hanno saputo resistere al tempo trasformandosi in qualcosa che va altre la scultura, la pittura. È solo quando le affronti da un punto di vista tecnico, cercando di farne una riproduzione che sia in grado di cogliere ogni singolo dettaglio e ogni singola sfumatura, lì comprendi la personalità dell’artista e la sua grandezza.
Per info
Fabio Viale
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