L’incontro con Fausta Squatriti (1941, Milano), artista poliedrica e attivissima (poetessa, scrittrice, editrice di libri d’artista grafiche e multipili, saggista) avviene alla Galleria Bianconi di Milano, dove fino al 15 Marzo sarà esposto al pubblico il ciclo pittorico “La Passeggiata di Buster Keaton”.
Realizzato nel 1963, il ciclo è rimasto fino ad ora inedito, almeno nella visione sinottica proposta dall’allestimento (tele di grandissime dimensioni accostate ad altre più contenute, come quella che arricchisce l’esemplare n°1 del suo primo libro d’artista ispirato a “Tatane” di Alfred Jarry, anch’esso in mostra) e grazie alla reintegrazione delle cornici in stucco e in legno intagliato che l’artista, pur avendole previste sin dall’inizio come parte integrante e volutamente barocca dell’opera, decise poi di eliminare. Un’operazione, quella delle cornici, in anticipo sui tempi, che oggi dimostra l’intuizione della forza concettuale del decorativismo fine a se stesso posto a voluto contrasto con la pittura. Il titolo prende spunto da un’opera teatrale di Federico Garcia Lorca e dall’unione tra la malinconica maschera di Buster Keaton e il racconto grottesco di Lorca, che Squatriti traduce in rutilanti composizioni di forme astratte da cui emergono elementi di una narrazione surreale, accentuata dalla scelta di una tavolozza cromatica di rosa, azzurri, pastelli pre – pop dalle tonalità acide che non nascondano un dichiarato omaggio, anche nelle dimensioni, ai polverosi cieli del Tiepolo, in cui santi e cherubini si gettano da soffici nuvole: l’esito è un vortice vertiginoso di forme e colori che nell’opera dell’artista diventano cifra personalissima e originale. Uno stile non riconducibile a nessuna corrente e financo a nessuna datazione particolare, caratteristica che rende questi lavori di inaspettata attualità, ricchi di un’energia palpabile.
La stessa energia che Fausta trasmette con generosa intelligenza, a partire dall’inconfondibile sorriso che illumina il volto e accompagna una affabulazione vivace, svelta, per molti versi travolgente. La gallerista Renata Bianconi racconta lo stupore dei visitatori nell’apprendere che le opere sono degli anni ‘60: diverse le reazioni, tra l’incanto e persino la commozione (osservata in presa diretta da chi scrive in un signore sinceramente colpito dall’intensità delle opere). Quella commozione che si prova davanti alla magia dell’Arte senza tempo, ricca allo sguardo e complessa nei significati.
A dimostrazione della circolarità atemporale della creatività sono esposte in mostra sei maschere in perfetto dialogo con il ciclo pittorico (Malinconia, Morte, Arroganza, Paura, Lussuria, Follia) realizzate da Fausta Squatriti nel 2012 per un breve spettacolo teatrale intitolato “Ora d’Aria”, ideato e realizzato prendendo frammenti di testi a lei inviati da amici poeti, assemblati pizzicando parole dai vari testi, per crearne uno suo, operazione di pura tecnica del linguaggio.
Inizierei la nostra conversazione proprio dalle reazioni del pubblico: davvero questi lavori sono emozionanti, difficili da contestualizzare e da datare, non sono simili a nulla!
Mi fa piacere, tra l’altro li ho realizzati a 23 anni! Questo però mi ha creato non pochi problemi, oltre al fatto, naturalmente, di essere donna: all’epoca addirittura si discuteva se le donne potessero essere artiste o meno! Mi dicevano “che bei lavori, non sembrano neanche di una donna”…“Peccato che sei donna perché poi dovrai smettere”…In effetti tra le mie compagne solo io e Grazia Varisco abbiamo proseguito, e poche altre: l’ho saputo da subito che non volevo famiglia, non volevo figli, ma non perché non abbia senso materno, ma perché bisogna scegliere e poi i figli li devi seguire. Io ho scelto l’arte, sin da subito.
Sei stata una disegnatrice precoce?
Precocissima, ho sempre adorato disegnare ma non sapevo (o volevo) riprodurre i disegni che mi chiedeva la maestra: la mia mamma era una donna molto intelligente e mi ha suggerito di dipingere ciò che vedevo attraverso la finestra. I miei primi paesaggi erano infuocati di colore, anche perché passavo il mio tempo a sfogliare i grandi volumi editi da Skira sugli impressionisti e sugli espressionisti che mio padre aveva acquistato nel dopoguerra: quello era il mio gioco preferito! Sono poi andata alle scuole medie, dove avevo come insegnante Gianni Monet: lui mi ha molto sostenuta facendomi conoscere l’opera di Kandinskj, Klee…Nel 1953 ho visitato con mia mamma la grande mostra di Pablo Picasso a Palazzo Reale e sono rimasta incredibilmente colpita, soprattutto da Guernica: uscita da lì ho annunciato che sarei diventata una pittrice cubista! Gianni Monet ha inviato un mio disegno che avevo intitolato La pezzente (forse già allora ero colpita dalla miseria, dalla povertà, da problemi di ordine sociale) ad un concorso per bambini e questo ha vinto un premio ed è stato pubblicato sull’Unità.
In seguito, grazie a mia madre che era una poetessa, sono entrata in contatto in età precoce con il mondo dell’arte milanese grazie alla galleria di Arturo Schwarz che, quando ancora faceva l’editore, pubblicava libretti di poesia con illustrazioni di artisti come Enrico Baj, o Lucio Fontana: un ambiente stimolante, dove arte e letteratura erano molto tangenti. Fu in una di queste occasioni, portandomi sempre dietro fogli e matita, che disegnai il ritratto di Salvatore Quasimodo in punta di matita, mentre beve il caffè, un ritratto gli assomiglia molto!
All’epoca ero brava a cogliere le somiglianze, forse adesso non saprei più farlo. Ho recuperato l’interesse nel disegno una ventina di anni fa, quando ho iniziato a ritrarre fiori che faccio ancora oggi, spesso di grandi dimensioni: è diventata la mia passione, è fatta di molti passaggi, un lavoro complesso, meticoloso, inizio a ritrarre il fiore quando è fresco, poi quando è decomposto, e infine secco, aggiungo qualche teschi, oppure ossicini di pollo, …diventa un memento mori.
Come hai proseguito negli studi?
Ho frequentato l’Accademia di Brera, dove vigeva una rigida disciplina, i primi due anni si poteva solo disegnare, solo successivamente si poteva dipingere. Ma per dipingere si intendeva la copia dal vero della natura morta che il professore allestiva aggiungendo uno straccio alla Cezanne, e io (con somma delusione dell’insegnante, che mi dava voti bassi) dipingevo solo lo straccio, che era di stoffa fiorita e che mi affascinava per le pieghe quasi metalliche. Da questi stracci sono passata alle composizioni (come quelle del ciclo ora in mostra) seguendo l’idea della tarsia piatta. Mi è sempre piaciuto dipingere per giustapposizione di colori piatti, ho sempre nutrito una predilezione per la geometria, l’astrattismo, la purezza di linee.
Come sei arrivata a prediligere queste palette di colori acidi?
All’epoca avevo il mio primo studio a fianco del colorificio Ripamonti: in negozio vi era uno scaffale intero di barattoli di colore che mi hanno affascinata: parlando con il proprietario, che era un chimico, mi sono interessata ai pigmenti puri che mischiavo con polvere di caolino e colla. Pigmenti che sono all’origine delle tonalità pop, pulite, un po’ da caramella che caratterizzano molti miei lavori pittorici e scultorei degli anni ’60, che danno l’idea di un mondo freddo, più compassato, celebrale quanto provocatorio. Posso dire quello che detestavo: non volevo realizzare nulla di enfatico, ho praticato anch’io l’informale ma in una forma più vicina all’astrattismo lirico: non amavo le croste di colore, la materia, non mi appartenevano, anche se le apprezzavo presso quegli artisti che ne facevano uso, se parliamo di Fautrier, Burri, o il Fontana dell’epoca delle Venezie. Se devo pensare a chi in quegli anni dipingeva freddamente pur con un mondo immaginifico e narrativo, mi viene in mente Valerio Adami che vedevo alla Galleria del Naviglio: lui aveva studiato con Achille Funi e aveva guardato a Magnelli, un precursore. Colori piatti, separati da linee nere, provenivano dal mondo dei fumetti, in quegli anni ’60, quasi un mito. Tutti gli intellettuali, leggevano Linus. Poi sono passata all’intaglia a traforo di figurine di compensato incollate su distanziatori non visibili nel nero delle scatole, avvicinando la pittura alla dimensione tridimensionale della scultura alla quale sono giunta poco dopo.
Un lavoro di sottrazione…
Il mio lavoro è sempre teso a raffreddare, in quegli anni specialmente, volevo sfidare il mio talento naturale mettendomi sempre in difficoltà. Oggi sono diventata manierista di me stessa, mi permetto di disegnare senza limite…di usare ogni mezzo espressivo che mi doni la sua ricchezza, da mettere in relazione con elementi diversissimi e contrari, cercando la contraddizione.
Puoi permetterti il Barocco dopo aver vissuto di Astratto!
Le sculture come “Cubo con nuvole” del 1967 sono di poco successive agli intagli: in loro si è sviluppato l’esperimento dei materiali non pittorici, acciaio, alluminio, plexiglas, resine, poliestere, lacche industriali. Nel clima delle avanguardie internazionali, si era fatto strada il rifiuto dell’artista che soffre… che si sporca le mani, con pennello e tavolozza … a favore dell’artista che si diverte, che vive in modo ludico la trasformazione dal passato al presente/futuro. Le mie sculture degli anni ’60 anticipano l’esperienza di Menphis che rimane nell’ambito del design, scambiandosi il ruolo con la scultura, in un dissacrante uso di entrambi i generi.
Quando hai iniziato con i libri?
Nel 1964, con l’amico Sergio Tosi, con il quale sono stata sposata per qualche anno, geniale studente di architettura fuori corso, abbiamo pensato che ci volesse un lavoro, per guadagnare, e siccome io sapevo stampare le acqueforti, abbiamo comprato un torchio e cominciato a realizzare edizioni numerate. Sergio abitava con suo padre, un sant’uomo, che ogni giorno tornando dal lavoro vedeva la trasformazione che la sua casa subiva ad opera nostra, che volevamo fare di quell’appartamento piccolo borghese, il nostro studio, dandogli una estetica ben diversa! Dal 1964 al 1974 abbiamo pubblicato le cartelle di grandi maestri e artisti allora emergenti sulla scena internazionale, fra i quali Lucio Fontana, Baj, Man Ray, Jean Tinguely, Niki de Saint Phalle, Louise Nevelson, Martial Raysse e tanti altri. Nel 1966 abbiamo conosciuto Cy Twombly e con lui abbiamo realizzato un libro strepitoso, stampato con polvere di gesso. Negli stessi anni il gallerista Pierre Lundholm, mercante d’arte svedese, si è interessato alla nostra produzione (acquistava sempre almeno metà di tutte le nostre edizioni) e nel 1968 ha esposto le mie sculture a Stoccolma: in galleria è venuta una gallerista americana, Barbara Kotz, che ha esposto le mie sculture colorate a New York, Houston, Mexico City, ho avuto molto successo, lì i miei lavori sono stati pienamente compresi. Dal 1980 ho ripreso l’attività editoriale a mio nome, realizzando edizioni numerate con Anni Albers, Man Ray, Pavel Mansouroff, Arman, Niki de Saint Phalle. Un altro incontro cruciale è stato quello con il gallerista Alexander Iolas (avvenuto grazie a Fontana) che ha esposto il mio lavoro nella sua galleria di Ginevra ed aveva affidato a me e Sergio la realizzazione di libri e manifesti per gli artisti che esponeva nelle sue gallerie di Parigi, New York, Milano, Ginevra, Roma, Madrid e Atene.
Dal 1972 i tuoi lavori diventano monocromatici…Perché hai tolto il colore?
Gli anni ‘70 erano drammatici, il clima sociale era cambiato, i miei lavori ne riflettevano gli umori, hanno perso il colore a favore del nero, un nero intrinseco alla materia del ferro, una materia organica. Il disequilibrio che ho sempre praticato, invece di essere scherzoso, è diventato strutturale, mettendo in crisi dal profondo il concetto stesso di forma, di pieno e vuoto, di equilibrio. Frequentavo allora artisti interessati all’arte cinetica, mettendo a fuoco la ricerca astratta e geometrica dell’inizio del secolo XX, con particolare riguardo a suprematismo e costruttivismo nei quali apprezzavo l’aspetto simbolico, perfino lirico e spirituale, espresso in geometria.
Successivamente i tuoi lavori hanno sempre maggiormente evidenziato il tuo amore per la parola scritta, l’immagine immaginata, l’oggetto, il simbolo…
Sì, mi sono interessata a questi temi perché studiando le geometrie ho incominciato a ragionare per moduli, per pieni e vuoti, elementi la cui somma dava un volume, un cubo, che nella sua rappresentazione piana, era una croce. (L’unico che ha capito immediatamente la ragione del cubo ai piedi dei miei dittici, come somma di superfici scomposte sul piano, è stato Max Bill!). Ma anche a non capirne la ragione, quel cubo unisce visibilmente la foto con il segno, e da alla loro contrapposizione un peso a piombo, che se crea un mistero, ne rivela in parte la ragione.
Volevo essere più oggettiva possibile. Fisiologia del quadrato e In segno di natura sono due cicli realizzati tra l’85 e l’89, e partono da calcoli rigorosi aritmetici originati dal ripensamento sull’aspetto spirituale della decorazione aniconica: segni di ordine, di disordine, figure che hanno finito per assumere un valore soprattutto etico. Ho più tardi inserito nei lavori la fotografia, contrapponendola a segni geometrici e simbolici in un unico, provocatorio, pensiero astratto che intendeva dimostrare quanto la decorazione geometrica scaturisse da un pensiero filosofico di grande importanza. Il linguaggio, parlato e scritto, nasce dalle singole parole composte tra di loro in modo sempre diverso, così ho fatto anche per l’arte visiva, mettendo in sequenza logica parole attinte da diversi linguaggi. Poi non mi sono più fermata: nel ciclo I Ferri del mestiere degli anni ’90 si legge bene questo concetto, mi interessa la differenza tra l’essenza e l’apparenza delle cose: il nodo scorsoio è bellissimo, diventa brutto perché serve per impiccare. La riflessione sull’umanità e sul senso etico ed estetico delle cose è diventata preponderante: nel passato spesso la bellezza si sovrapponeva alla funzione, quando l’ipocrisia del bello dominava nei rapporti di convenzione che regolavano la società. Oggi ce ne sono altri.
Ho continuato la mia ricerca sul legame tra essenza e apparenza con la serie “Nel regno animale” dove l’animale è l’uomo che si nasconde, che fa del male a un altro essere vivente, dimostrando quanto l’umanità sia nemica di se stessa. Successivamente ho sviluppato un nuovo ciclo “Nel regno vegetale”, dove ho cercato l’aspetto visivo delle malattie delle piante, foglie accartocciate, macchie, che tuttavia si presentano sempre con una certa ambiguità, sono belle, e invece sono indice di malattia. Una foglia di insalata malata sembra una farfalla perché anche nell’espressione della malattia può esserci una piacevolezza visiva…c’è sempre questa necessità di mescolare le carte.
Ho tolto il cubo quando ho fatto uno studio sui malati di mente partendo da una serie di fotografie dall’ospedale psichiatrico di Valona, e poiché nelle malattie mentali non c’è nessun elemento rapportabile alla logica, ho eliminato l’aspetto geometrico per evidenziare il lirismo, il patetismo raggelato dal mio stile abituale. Nella Commedia Umana ho fatto dei veri e propri ritratti alle persone note, come Arturo Schwarz, Flavio Caroli, Achille Bonito Oliva, Kadishman, (ma c’è anche il mio autoritratto). In tutti c’è un drappo rosso a ricordo della nostra personale commedia, alla maschera che ci costruiamo per presentarci agli altri e essere accettati, sul palcoscenico del mondo. Perseguo sempre la Bellezza come codice attraverso il quale arrivare in modo più forte a colpire nel segno: nell’Arte è possibile sublimare, ma senza la bellezza il messaggio arriva meno. Si può dire l’indicibile con la Bellezza.
Sono tutte opere narrative per immagini…
Sì, come la Via Crucis che ho esposto all’ex Teatro Sociale di Bergamo nel 1999 prima che fosse restaurato. Ho voluto realizzare tutte le 14 stazioni a modo mio: un grandissimo formato di 2 metri x 1,40 con intense immagini simboliche, fortemente evocative, mai dirette. Per la Resurrezione ho scelto il volto di un minatore tratto da un giornale, lo avevo conservato dal 1961, un volto di intensa bellezza, che esprime la fatica dell’essere, la gioia di un lavoro ben fatto.
Fausta a questo punto della narrazione mi fa un grande regalo: mi mostra un suo libro d’artista realizzato nel 2013, In memoria, dedicato alle donne ebree detenute nel carcere delle nuove nel 1942. Una grande scatola di lamiera zincata (come le cassette della cenere della cremazione) con le lettere di bronzo in applicazione a formare il titolo, custodia di libro le cui numerose pagine sono unite da una garza nera sfilacciata sui bordi.
Come è nato questo progetto?
Nel libro In memoria lo spunto narrativo mi è stato dato da dei documenti relativi all’arresto e alla detenzione nel carcere Le Nuove di Torino, nel 1942, di 36 cittadine torinesi arrestate in seguito alle leggi razziali. Erano tutte donne, alcune molto anziane. Mi dicono che non siano state fatte partire per la Germania, ma non si sa nulla del loro destino in carcere. L’episodio è rimasto poco noto fino ad oggi, quando lo si è voluto ricordare con questo mio lavoro, esposto per la prima volta nell’ambito di una mia mostra relativa alla Shoah tenutasi al Museo nell’ex carcere Le Nuove, nel 2013. Partendo da quelle pagine, dove le prigioniere avevano dovuto firmare il loro verbale di arresto, controfirmato dal Capo Scorta e dalla Guardia, ho creato le altre immagini del mio racconto, che inizia con un cerchio azzurro, un pezzo di universo cui tutto appartiene. Poi quel cerchio diventa nero. Vi sono pagine nelle quali i segni astratti parlano di una azione violenta, con macchie, con lacerazioni. C’è poi una sorgente, che bagna appena la roccia da cui sgorga, un inizio di vita. Ho disegnato un piccolo fiore per ogni una delle 36 prigioniere. Ho composto due pagine con 36 campioni di stoffe diverse, stoffe di vestiti a righe, a fiori, di seta, di cotone, di lana. I vestiti delle prigioniere, erano anche la loro identità, eliminata attraverso la divisa carceraria. E poi c’è la fotografia del letto di contenzione, della incredibile sedia sulla quale facevano le operazioni chirurgiche nella infermeria del carcere, accostate, queste immagine di violenza e di dolore, ad un segno rosso, un uncino spezzato, velato da un tessuto di lino leggero, ricamato con delle piccole foglie, il lenzuolo più bello di donne, di spose, di vite spezzate.
L’ispirazione arriva da sé?
Sì, ma bisogna guardare, leggere molto, rielaborare, ho sempre amato visitare i musei di arte antica e moderna, così come guardare ai maestri che ho avuto la fortuna di conoscere, su tutti Lucio Fontana che per gli artisti della nostra generazione è stato un idolo, non solo perché era un artista meraviglioso ma perché ci aiutava, incoraggiava, ci trasferiva la sua energia. Personalmente mi sento sempre ispirata, a volte non comincio a lavorare solo per ragioni contingenti, ho bisogno di avere tempo davanti a me, per cominciare. Se lavorassi ogni giorni, mi ammalerei, non posso farlo come una routine, per me è una faccenda complessa. Se si tratta di poesia, di narrativa o di saggistica, le correzioni sono molte, moltissime, mi capita di rileggere pensando che sia solo una faccenda di virgole, e invece è moto di più, mi ci vorranno ancora mesi, prima di credere che sia finita l’ennesima stesura. Nell’arte visiva, è più facile, nel senso che la tensione si consuma nel fare, non ritorno mai su quello che faccio, ci penso, mi concentro, mi emoziono, e faccio.
Con l’opera d’arte questo non funziona…
La revisione non è una pratica possibile in questo caso, lo sarebbe se dipingessi in modo materico, dove strato si strato, si può cancellare, correggere, rifare. La sera, quando sono troppo stanca per continuare, se non sono contenta, mi allontano dallo studio. Devo attendere la mattina dopo, per riguardare, e spesso mi accade che il lavoro che prima mi tormentava, mi colpisca come terminato, senza che nessun ripensamento possa cambiarlo.
L’opera da editrice a cui sei più legata?
Posso dirti quella che considero la mia Cappella Sistina! L’ho terminata nel 1968 e intitolata Exacta, è una cartella di 54 grafiche di grande formato (68 x 68 cm), pensate appositamente da 27 artisti protagonisti della ricerca astratta geometrica, dal costruttivismo all’arte sistematica. Ci sono voluti quasi 10 anni per finirla.
Hai una lunga esperienza come docente (Squatriti ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Carrara, Venezia e Milano, ed è stata due volte visiting professor alla University at Manoa di Honolulu, U.S.A e all’Académie des Beaux-Arts di Mons): un consiglio per i giovani artisti.
Studiate, andare nei musei, nutritevi di tutto. Lasciatevi ferire a morte dalla Bellezza. Questa è la cosa più importante e che nessuno vuole più fare…
Perché?
Perché qualche cattivo maestro gli ha fatto credere che l’opera d’arte si possa risolvere con una battuta di spirito, come se l’opera fosse già dentro alle cose, e non è così. Per essere dadaisti, bisogna essere molto intelligenti, dote rarissima, disporre di una sensibilità artistica, e poetica, oggi non basta, un piccolo pittore ottocentesco può darci grazia, leggerezza, o malinconia, ma come fa a sopravvivere alla mediocrità, un dadaista?
Per info:
La Passeggiata di Buster Keaton