Ha inaugurato la settimana dell’arte contemporanea a Torino Shkrepëtima, progetto dell’artista di origine kosovara Petrit Halilaj, pensato per gli spazi della Fondazione Merz.
La mostra, a cura di Leonardo Bigazzi, sarà visibile sino al 3 febbraio 2019 e costituisce il momento conclusivo di un più complesso progetto dell’artista, articolato in momenti diversi: Petrit, vincitore della seconda edizione del Mario Merz Prize, ha infatti realizzato il 7 luglio 2018 una performance presso il Centro Culturale di Runik (Kosovo), sua città natale, e successivamente una mostra presso il Zentrum Paul Klee di Berna. Quella di Torino è la mostra conclusiva e il culmine di questo percorso. In albanese, Shkrepëtima significa “flash”, “fulmine” o “un sentimento improvviso e intenso”, ma era anche il nome di una rivista culturale multietnica pubblicata negli anni ’70 e ’80 da attori, insegnanti e studenti del villaggio.
Abbiamo chiesto all’artista di raccontarci la genesi del progetto: “Sono felice per essere riuscito a realizzare questa performance coinvolgendo anche alcuni amici incontrati lungo il mio percorso professionale, come Leonardo Bigazzi, che mi hanno seguito a Runik e hanno vissuto con me questa esperienza. Nel mio paese non si svolgono eventi da più di trent’anni ma le persone hanno memoria della intensa attività culturale precedente. Il villaggio di Runik si trova nel nord del Kosovo, ed è stato completamente distrutto a causa della guerra: la Casa della Cultura è rimasta visibile nell’impianto urbanistico ma solo come rovina; prima della guerra prevedeva un teatro con oltre 300 posti, una biblioteca con 7000 volumi e una cooperativa culturale che organizzava mostre, incontri, spettacoli. Ho visto nei resti di questo edificio una ferita aperta e ho pensato di aprire un dialogo con le persone, che quel luogo avevano vissuto, per ricostruire questo passato anche grazie ad un racconto orale; al contempo ho progettato un’azione concreta per il recupero dello spazio, un’azione che potesse far rivivere “riaccendere” il luogo – almeno per il tempo di una performance collettiva – coinvolgendo tutto la popolazione. Questo è avvenuto gradualmente ma in modo costante, durante l’estate ad esempio si è svolto un workshop con i bambini realizzato in collaborazione con il dipartimento della Fondazione Merz che ha avuto molta adesione. Continua l’artista: “Uno degli spunti di riflessione da cui sono partito è l’ocarina, che nella performance diventa uccello; nel mio paese, in seguito ad un intervento di scavi avvenuto tra gli anni ’60 e gli anni ’80, sono stati rinvenuti molti esemplari di epoca neolitica di questo particolare strumento a fiato. Purtroppo dal 1997 gran parte della collezione è conservata nel museo di Belgrado, e non è mai stata restituita alla città. L’ocarina è un simbolo della nostra identità culturale, uno di quegli oggetti a cui oggi abbiamo accesso solo attraverso le immagini, e a cui io volevo anche restituire una “forma” e la capacità di riattivare le emozioni. Un altro momento importante è stato incontrare gli artisti che hanno dato vita al teatro della Casa della Cultura, con loro ho discusso le pièce teatrali che mettevano in scena, che abbiano rielaborato in alcuni script I temi affrontati e considerati scottanti diversi decenni fa, come il ruolo della donna nella società, o l’armonia in una società multietnica, sono ancora incredibilmente attuali. Purtroppo tutta la documentazione della Casa della Cultura è andata quasi del tutto briciata e distrutta, per cui era fondamentale recuperare la tradizione orale. Mi piace sottolineare anche la differenza concettuale tra macerie e rovine: mentre le prime parlano di devastazione, le rovine parlano di un tempo puro, con cui si vuole mantenere un relazione di affezione. Per gli abitanti era strano che io volessi utilizzare proprio le rovine della Casa della Cultura, senza neanche cercare di ricostruirlo. Anche solo il lavoro di pulizia (18 camion di macerie!) ha permesso alle persone di percepire un cambio fisico dello spazio, che è stato l’inizio di un cambiamento mentale, le persone hanno incominciato a cambiare idea a ripensare lo spazio prima ancora della performance.
Aggiunge Beatrice Merz, direttrice della Fondazione: “Con Petrit, anche grazie all’ottima sintonia con il curatore Leonardo Bigazzi, siamo riusciti a costruire non solo una mostra, ma un progetto completo in piena sintonia con questo spazio, che è la vera finalità del Premio Mario Merz, e che mi auguro di cuore possa essere di slancio per il suo lavoro futuro”.
A Torino l’artista ha presentato le installazioni monumentali che ricompongono, dialogando con lo spazio della Fondazione, le scenografie, i costumi e gli oggetti di scena della performance di Runik: il fuso, le lettere dell’alfabeto, l’uccello-ocarina prendono vita librandosi nello spazio o arrampicandosi sulla parete, con quella dose di realismo magico e di gioioso animismo che caratterizza la poetica dell’artista. Sono quindi esposti 40 nuovi disegni realizzati direttamente sui documenti d’archivio della cooperativa, scoperti dall’artista tra le rovine dell’ex Casa della Cultura. La serie di disegni diventa un vero e proprio storyboard concettuale della performance e allo stesso tempo una trama visiva della storia culturale del villaggio, riportando alla memoria artefatti neolitici a forma di uccello, personaggi delle commedie che sono state eseguite da attori dilettanti in Runik alla fine degli anni ’70, e oggetti di scena come tende e costumi. Infine il video della performance, della durata di circa 30 minuti, ripercorre l’azione scenica avvenuta lo scorso luglio, raccontata con taglio registico dall’artista in soggettiva, e diventa compendio di tutti gli elementi evocati.
In particolare l’ocarina che con il suo suono magico e antichissimo riporta la scintilla nei cuori degli abitanti di Runik, e anche in quelli dello spettatore, rapito dalla grande capacità di Petrit di trasfigurare anche le realtà più amare e gli “amabili resti” che queste hanno lasciato dietro di sé in poesia e pensiero creativo: una speranza che diventa azione.