Marco Memeo / Beatrice Sacco Il Corpo Estraneo presso Era Aurora, laboratorio di poesia vivente di Davide Bava, in Lungo Dora Napoli 6 a Torino. Canale Arte presenta per l’occasione un approfondimento critico sui lavori pittorici formali di Marco Memeo e sull’indagine del mezzo fotografico condotta da Beatrice Sacco.
Il Corpo Estraneo è il punto di possibile uscita dall’organico, di rottura con lo schema ritmico del senso e del movimento. Inizia a testimoniare cautamente di un accadimento (Scintillante! Esposizione del qualcosa che eccede la rappresentazione). Dietro, nella sua origine al di fuori, sta la catastrofe dell’organizzazione percettiva, ecco il dirottamento dispendioso dell’energia. Esplosione, orgasmo. Qui, davvero, a ridosso del mondo, si nasconde il sublime?
Noi osserviamo il fenomeno che non è più tale, rovesciato come un bacio sulla nostra fronte, senza mittente. Ci appare, talvolta, nei nodi del pensiero, dalla finestra della realtà, emerge nettamente, in grumi spettri fluorescenze, nello schermo della visione. Alfabeto ricavato dalla tattilità dell’esperienza. Verità è separazione – dove le vacche nere della notte prendono colore e s’incidono sullo stupore. Venerazione verrà, sarà chiara nella nicchia dell’eccezione.
Riconosciamo per attimi, che posizioniamo in consequenzialità: strutture complesse, accattivanti, di consuetudine. Da un lato, l’elementare parvenza dei nostri sguardi, quando la vita si fa specchio e la fisicità s’incanala in flussi morali, psicologici, esistenziali. Sporgiamo e porgiamo le nostre fattezze all’altro io, per giacenza diaristica, biografica, consolatoria o elogiativa. La bandiera sventolata è il canto della carne, sangue in ebollizione fissato in grafia. Poi, viene il linguaggio: quell’incatenamento di sovra-incisioni sull’evidenza già saldata. Dunque, l’azione svincolante rasenta la schiuma della comunicazione. L’analisi si disfa e si fa mediale, assumendo strumenti in quanto contenuti, frammenti volanti sull’orizzonte della scrittura: voce, segnale, parola, proverbio, parabola, letteratura. Raccolta dati: il soggetto, spaesato nella statistica straniante, comincia a delirare.
Il lavoro di Marco Memeo parla attraverso i muri della restrizione inevitabile. Dalla produzione ad olio di matrice tematicamente urbana, l’artista sviluppa l’auscultazione del vicolo cieco della civiltà, della fessura insondabile, del trompe l’oeil casuale e causale, fortuito e scelto. Qui, il velo si scosta, rimanendo saldamente in posizione di difesa. La palpitazione è muta: narra d’un oltre eventuale, nell’asciuttezza delle speranze. La gioia sale dalle tendine dell’oggettivazione, per autocoscienza. Se muoviamo il raggio verso gli spicchi della linguistica, scaviamo nella logica del segno tutta la plastica del senso. Le dita evaporano dall’acquosità spiccia dell’emozione. L’assenza d’autorialià si rintraccia laddove il marasma individuale è improvvisamente sostituito dalla grammatica: i passi sulla sabbia durano un’eternità. In altro dipinto, acquerello su tela trattata, l’occhio dell’amata ci volta le spalle, strappo sul drappeggio, in ferita lieve, o sulla superficie del racconto?
Beatrice Sacco imprime le volontà di conoscenza su flusso analogico, su incisione in alta accezione, sui momenti del quotidiano memorizzati mediante l’utilizzo di spazio tempo supporto a disposizione. Il dettato segue linee, segmenti di grande portata e lunga gettata, sconfinando dalla pratica estetica per darsi riservatamente alla relatività delle prospettive. Ci bagnassimo nel bacino dell’espresso e del non-detto, saremmo catapultati e imprigionati nel dominio delle lettere. Invece, foglie d’erba tramano volute, veroniche e danze di impossibile registrazione. I campi d’erica della pulsazione biologica e somatica sono fermati per attimi grondanti, al calor bianco della lampadina: anche il collage diventa femmina, trascinando una coltre di sentori di là dalla pagina. Intanto, per eccesso, sognano i lividi, le impressioni, i fendenti, migrando dalla patina all’azione autentica delle nostre menti.