A febbraio arriva nelle sale FINAL PORTRAIT. L’arte di essere amici, un film scritto e diretto da STANLEY TUCCI e tratto dall’autobiografia di James Lord. Un ritratto di Giacometti con GEOFFREY RUSH e ARMIE HAMMER.
Nel 1964, durante un breve viaggio a Parigi, lo scrittore americano e appassionato d’arte James Lord incontra il suo amico Alberto Giacometti, un pittore di fama internazionale, che gli chiede di posare per lui. Le sedute, gli assicura Giacometti, dureranno solo qualche giorno. Lusingato e incuriosito, Lord accetta. Non è solo l’inizio di un’amicizia insolita e toccante, ma anche – visto attraverso gli occhi di Lord – di un viaggio illuminante nella bellezza, la frustrazione, la profondità e, a volte, il vero e proprio caos del processo artistico.
FINAL PORTRAIT è l’affascinante ritratto di un genio e la storia di un’amicizia tra due uomini profondamente diversi, eppure uniti da un atto creativo in costante evoluzione. Il film racconta anche le difficoltà del processo artistico – a tratti esaltante, a tratti esasperante e sconcertante – chiedendosi se il talento di un grande artista sia un dono o una maledizione.
Gail Egan ha prodotto FINAL PORTRAIT per Potboiler Productions, insieme a Nik Bower per Riverstone Pictures e Ilann Girard per Arsam International. La Egan ha immediatamente sposato il progetto dopo aver letto la sceneggiatura di Stanley Tucci, tratta da un romanzo autobiografico di James Lord, Un ritratto di Giacometti.
Il libro racconta l’ultimo incontro tra Alberto Giacometti e James Lord, un giovane e facoltoso americano che aveva fatto amicizia con l’artista, già avanti con gli anni, durante una delle sue frequenti visite a Parigi. I due erano amici da più di dieci anni quando Giacometti chiese a Lord di posare per quello che sarebbe diventato il suo ultimo ritratto. Giacometti gli promise che sarebbe stato un lavoro di un pomeriggio: in realtà, il ritratto richiese 18 lunghe e tormentate sedute. Il lavoro terminò solo quando Lord disse a Giacometti che non poteva più né aggiungere né togliere niente a quel dipinto. Giacometti regalò il ritratto a Lord come gli aveva promesso. Voleva dipingerne un altro, ma morì due anni dopo: i due uomini non si sarebbero mai più incontrati. Il dipinto fu venduto nel 1990 per oltre 20 milioni di dollari.
Stanley Tucci afferma: “Sono un grande appassionato del lavoro di Giacometti. Lo sono sempre stato. A un certo punto ho cominciato a leggere di tutto su di lui, compreso il libro da cui è tratto questo film, Un ritratto di Giacometti. Saranno più di vent’anni che me lo porto dietro. Ho scritto questo film dieci anni fa, o anche più. Mi ha sempre interessato il processo creativo: perché un artista fa quello che fa, il rapporto col suo lavoro e con la società. E’ un processo che Lord e Giacometti raccontano molto bene in questo libretto, senza ombra di dubbio uno dei migliori mai scritti sul tema. Dovrebbe essere la Bibbia di chiunque lavori in campo artistico. Giacometti è stato uno degli artisti più colti del suo tempo. Ed era anche molto spiritoso e dotato di un gran senso dell’umorismo.”
Geoffrey Rush (Alberto Giacometti) conferma: “Stanley voleva a tutti i costi evitare la trappola del classico biopic incentrato sugli eventi memorabili che costellano la vita di un artista. Qui non accade niente di eclatante: ci sono solo il disordine e la polverosa confusione di uno studio fatiscente in cui l’artista vive e lavora da anni. Stanley ha un grande senso del ritmo e ha saputo mettere a fuoco la difficoltà di coniugare la celebrità con i tormenti del processo artistico. E’ bello vedere qualcuno che nega completamente quella che oggi conosciamo come “cultura della celebrità”. In molte interviste, Giacometti dice: “Lasciate perdere le questioni metafisiche e esistenziali: sto solo pasticciando col gesso, mi trastullo con la creta. Non so dove sto andando. Mi limito a giocare, finché a un certo punto non viene fuori qualcosa”.”
Rush prosegue: “Credo che il film sollevi anche alcune questioni morali importanti. Giacometti sa di avere impulsi maniacali, ma non può fare a meno di perseguirli. E’ una questione di sopravvivenza, non di egoismo o malvagità.
La sceneggiatura di Stanley ti trasporta nella quotidianità di personaggi complessi e sfaccettati, all’apice della fama e della fortuna. Eppure le loro vite scorrono in modo piuttosto banale e ordinario. C’è un lato comico in tutto questo, che nel film emerge quasi spontaneamente.”
Alberto Giacometti è uno scultore e pittore svizzero (Borgonovo, Cantone dei Grigioni, 1901-Coira 1966). Fin dalle giovanili esperienze la sua ricerca si volse contemporaneamente, ma con elaborazioni espressive autonome, sia alla pittura (con la quale l’artista esordì) sia alla scultura (la cui importanza prevalse e fu determinante in tutta l’opera di Giacometti). Frequentò l’École des Arts et Métiers di Ginevra; soggiornò in Italia (1920-21), soprattutto a Venezia e a Roma; nel 1922 si stabilì a Parigi, dove studiò e lavorò.
Attratto dall’arte negra e attento alla lezione cubista, Giacometti eseguì dal 1925 al 1932 una serie di gessi (Sfera sospesa, 1930, Zurigo, Kunsthaus), dando prova di una fantasia inventiva che interessò il gruppo dei surrealisti, nel cui ambito l’artista fu portato a operare per circa un decennio.
Dal 1935 iniziò per Giacometti il periodo più ricco e più travagliato di ricerche e di esperienze per approfondire l’analisi dell’oggetto e tradurre le emozioni interiori, che lo portò a ricostruire la realtà, mediante un processo riduttivo e deformante, in un nuovo rapporto strutturale e quindi spaziale: nacquero, così, le sue sculture filiformi, portate a un verticalismo allucinante, emblematico di una condizione esistenziale.Intorno al 1940 strinse amicizia con Picasso e con Sartre e in quest’epoca riprese a dipingere con le stesse tematiche e gli stessi problemi formali e spaziali della scultura. Sulla modulazione d’un colore grigio ossessivo, in un gioco instabile di primi piani e di lontananze, l’immagine umana è resa con scarnificante essenzialità di linee e intensa drammaticità espressiva.