Cesare Brandi, La fine dell’Avanguardia, 2013, Quodlibet
Fondato su una definizione del paradigma dell’opera d’arte, il pamphlet di Cesare Brandi pubblicato da Quodlibet persegue una riformulazione funzionale dello status d’artista, tra Romanticismo e Anti-Modernismo…
Gli interessi di Cesare Brandi spaziavano dalla storia dell’arte Italiana all’architettura, passando dall’arte contemporanea con importanti pubblicazioni su Alberto Burri e Giorgio Morandi. Ancora più approfonditi e interdisciplinari erano i suoi studi teorici, testimoniati da fondamentali pubblicazioni di estetica (Segno e Immagine del 1960 e Teoria della Critica del 1974) e dalla Teoria del Restauro (1963), divenuta un punto di riferimento internazionale per gli operatori del settore.
Il saggio recentemente riproposto da Quodlibet, La Fine dell’Avanguardia, risale al 1949. Nel 1952 era stato ripubblicato nel volume omonimo delle Edizioni Meridiane di Milano, insieme al saggio del 1951 L’Arte di Oggi, presente anche nella raccolta uscita recentemente.
Introdotto e curato da Paolo D’Angelo, il libro si apre sui motivi che, oggi, ci fanno apparire inaccettabili alcune argomentazioni che Cesare Brandi sosteneva nell’immediato dopoguerra. Generiche polemiche contro il fumetto e contro la canzone popolare e la musica leggera, sterili diffidenze nei confronti del jazz e delle psicanalisi, si accompagnano, tuttavia, a illuminanti intuizioni sul valore dell’avanguardia, della ricerca e della sperimentazione. Fondato su una definizione precisa ed equilibrata del paradigma dell’opera d’arte, il pamphlet si incanala nella direzione di una riformulazione funzionale dello status d’artista. Tale condizione, risalente al Romanticismo, esula da ogni notazione individualistica e narcisistica per riportare l’attenzione sul creatore come privilegiato agente di rivolta, unico catalizzatore sociale della rottura, della rivoluzione e della novità. Spesso in dissidio con il proprio tempo, Cesare Brandi muove, a partire da queste premesse, una critica alle esperienze avanguardistiche da una prospettiva singolarmente anti-modernista.
La ricerca del nuovo raggiunge il punto di estenuazione con la proposizione di un’arte astratta. Pittura e scultura astrattiste rappresentano per Cesare Brandi l’estrema volontà di un’innovazione continua che non fa altro che ingannare se stessa. Finché l’astrattismo si pone come esplicitazione ultima di una cultura figurativa, come estrema esasperazione strutturale, esso può gettare un riflesso di freschezza sulle sperimentazioni del Bauhaus e della musica atonale.
Condensata definitivamente in un costretto formalismo e tentata da un vago e fascinoso decorativismo, l’astrazione si presenta spesso come un residuo, nelle parvenze di una contingenza perennemente intercambiabile e sostituibile. In questo modo, l’arte retrocede perentoriamente all’oggetto, alla macchina, all’ideazione del falso utensile, fino a concettualizzarsi nell’istruzione sull’utilizzo, nella pratica intellettuale definitivamente slacciata dalla concretezza.
Già nel Secondo Dopoguerra, per il critico, non esisteva più spazio per innovative modalità espressive comunitarie e pubblicamente riconosciute, degne del titolo di arte. L’unico diversivo era ormai costituito dai circenses: il cinema che, per Cesare Brandi, non avrebbe mai potuto elevarsi ai livelli dell’opera d’arte per l’incapacità di svincolarsi dalla presa diretta sulla realtà e per l’alta spettacolarità; e lo sport, che avrebbe rappresentato la forma di alienazione contemporanea per eccellenza: il tifo…