Boris Groys, Art Power, 2012, postmedia books
I giochi di potere e la libertà dell’arte
Scavando nell’immagine e nel linguaggio, vivendo negli universi di pausa creati in seno a poteri di oppressione e di liberazione, le operazioni artistiche hanno sempre rincorso la possibilità di crearsi un raggio d’azione autonomo, slacciato dalla conformità politica e sociale
Boris Groys, filosofo ed esperto di teorie mediatiche, ha sviluppato la propria ricerca a partire dall’analisi del postmodernismo sovietico. Parallelamente e spontaneamente, il campo di studi si è avvicinato alle complesse strutture di rapporto tra sistema dell’arte e adesione ideologica a politiche oppressive e conservatrici, piuttosto che progressiste o libertarie.
Art Power, pubblicato da Postmedia Books, è una raccolta di quindici saggi scritti nel corso degli ultimi anni, che si pone, all’interno della produzione di Groys, come una sorta di compendio delle intuizioni finora maturate. Ripercorrere esaustivamente i contenuti eterogenei del libro, che si espandono approfonditamente intorno alle relazioni tra arte e ideologia, può rivelarsi impresa ardua. Una possibile chiave di lettura, tuttavia, deve essere rintracciata nell’opera di Walter Benjamin e nei collegamenti che possono scaturire dal confronto delle idee del pensatore tedesco con gli episodi seminali della cultura contemporanea. Il concetto di aura, elemento distintivo dell’artista già dal Decadentismo, e la riflessione sulla riproducibilità tecnica dell’opera non sarebbero, secondo Boris Groys, due istanze opposte. La sparizione di ogni distinzione materiale tra originale e copia non impedisce, infatti, una distanza eccedente, invisibile ma non meno reale, tra le due: l’originale continua a mantenere un’aura che la copia non può possedere. Il risultato di questa analisi andrebbe riletto, dunque, alla luce di una particolare dialettica tra iconoclastia e iconofilia. Le esperienze artistiche contemporanee avrebbero sempre intrapreso una sofferta lotta con le immagini, considerate alla stregua di simboli o feticci del potere. A partire da Kazimir Malevic, passando attraverso Marcel Duchamp, per arrivare fino a Fischli & Weiss e Rirkrit Tiravanija, gli episodi di avanguardia hanno abitato il territorio vago della contraddizione. Gli allestimenti museali, le speculazioni critiche, i lavori di curatela, allo stesso modo, si sarebbero sempre dovuti confrontare con gli interstizi creati dall’arte all’interno delle dottrine di potere. Scavando nell’immagine e nel linguaggio, vivendo negli universi di pausa creati in seno a poteri di oppressione e di liberazione, le operazioni artistiche, in fondo, hanno sempre rincorso la possibilità di crearsi un raggio d’azione autonomo, slacciato dalla conformità politica e sociale.
I pilastri portanti dell’arte dell’ultimo secolo sono costituiti dalle continue intrusioni nella logica delle ideologie. La ricerca dell’utopistico equilibrio che possa sovrastare l’imperfezione e l’approssimazione dell’istituzione si rivela come una costante. Mettere in discussione ogni potere finito attraverso la contrapposizione ad una superiorità infinita può simulare una sorta di rito di fondazione dell’estetica moderna. Dio, natura, esistenza, assolutizzazione e oggettivazione sarebbero, allo stesso tempo, pretesti e risultati di gesti votati alla destrutturazione dell’autorità. Lo stesso concetto di autorialità è annichilito. L’unica interpretazione possibile resta la lettura esasperatamente problematicizzata, perennemente discussa, dilatata fino all’esaurimento.
Il risultato della disamina di Boris Groys è l’approdo alla denuncia di un eccesso di democrazia pluralistica, di uguaglianza demagogica. Questa esasperazione si concretizza come il fattore che può stabilizzare e destabilizzare, al tempo stesso, l’equilibrio democratico dell’estetica e del potere. Ogni opera d’arte che presenti una visione politica o religiosa rende il proprio assunto inevitabilmente profano. La secolarizzazione dell’ideale crea, conseguentemente, degli oggetti e delle situazioni intrinsecamente paradossali.
Le aporie rappresentano le intenzioni che caratterizzano l’arte nella sua totalità. Generato da un’ironia di matrice romantica, il dubbio realizza aleatoriamente la radice della nostra società. Boris Groys giunge a definire la contemporaneità come una singolare incarnazione dell’auto-contraddizione. Specchio di movimenti mediatici di acquisizione di diritti e di rottura con la tradizione, il risultato fenomenico dell’esperienza artistica vive nella dissacrazione. È a questo punto che ci si confronta con dipinti che possono essere descritti sia come realistici che come astratti, con opere che possono essere considerate sia come sculture tradizionali che come ready made, con spettacoli che diventano happenings. Il valore non sta nella novità, ma in un eterno gioco dialettico all’interno dei concetti di alterità e differenza: il residuo del luogo utopico dove arte ed esistenza continuano ad essere distinte.
Una serie di saggi di Boris Groys indaga il rapporto tra estetica e ideologia. E marca i confini di un territorio di azione per il sistema dell’arte contemporanea
Boris Groys, Art Power
Postmedia books, Milano
2012
208 pp.
ISBN 9788874900671
Pagine 208, euro 21,00
http://www.postmediabooks.it/