Giovedì 30 marzo inaugura “L’Atelier Sospeso” presso Il Circolo Virtuoso di via San Secondo 66 a Torino. Dalle 18.00 con Benedetto Bonaffini, Elisa Camurati, Vanessa Depetris, Romina Di Forti, Cecilia Gattullo, Tiziana Inversi, Alessandra Nunziante, Beatrice Sacco
Atelier Sospeso. Esposizione Visiva Contemporanea: Pittura, Poesia Concreta, Cromatismi Sparsi e Collage, Florilegi. L’Immagine Mista, il Colore-Medium e il Messaggio, Incisione Incidenza, la Tecnica e l’Immediatezza, l’Affissione Scenica in Evanescenza
L’oscurità, che ogni attore scruta dalla scena, diventa presto un mare: scende il cielo, illumina un terzo movimento, spazioso pavimento, come se l’universo volesse lasciarci respirare. Così, discende su di noi l’opera d’arte, in sospesa rappresentazione, dove l’occhio accede in fantasia ed immaginazione, per precaria assunzione, alla scelta di stile e di bellezza. L’ossigeno penetra la stanza. Caligine come incenso vaga per l’aere, a decorare, sporcando, tutti i sensi. Alcuni alter-ego si accucciano, in tiepida attesa, costipati: soprammobili immobili, demotivati, nel locale. La sedia a dondolo aiuta a covare le parole, agli stipiti, sulle ali di un caminetto. Il letargo sta finendo, finalmente. Per questo motivo, lo sbuffo di fumo e la sirena di un traghetto, in lontananza, sono sottintesi: inviti al viaggio, in mancanza e per brama di vertigine…
L’accessorio Biedermeier dialoga con l’abitudine. Talvolta, la tecnica è delicata, domestica, decorativa, la pennellata più morbida. Dal dentro al fuori: risposta senza domanda. Il dubbio s’insinua lentamente, in spirali nero fumo: spiraglio vero. È pelosa, a tratti, la resa delle figure, placide o costrette nei loro nidi, nelle tane ricavate dalla quotidianità, tra fissi schemi, cassetti riordinati, foglie e fogli ornamentali. La consuetudine li isola, li gonfia e li consuma come tali: quali dèi staranno conservando la loro irrigidita e nascosta identità?
In gita con l’amore, l’autore – non ancora tale – vede l’oceano. Ogni anno la consapevolezza è maggiore. La coperta si asciuga e ritira piano piano, stringendosi e sbiadendosi. Alle spalle, un posticino ricavato per l’uomo dell’anno scorso: pupazzo dei tempi passati, feticcio privo di funzionalità. C’è un avvistamento in lontananza: una nave, un atollo, un faro? Simboli tutti di libertà conquistata: progresso individuale. Tutto si dipana su riquadri, in evidenza, come dipinto su una tela distesa, collage documentato. Le pieghe, a discesa, si attenuano e scompaiono. Il telo è assunto come parte: sia scritto su se stesso, che parte integrante dell’attesa?
Un luogo privato: la cappella di famiglia. Un non-luogo di passaggio: un tunnel abbandonato. L’oggetto incontra il soggetto decapitato: lo celebra e commemora. Con stupore, infine, lo germoglia ancora e riproduce.
Siamo composti – in piedi, seduti, sdraiati – su tronchi, che sono i vettori delle nostre energie. Man mano, il legno s’invecchia e s’inumida, si logora o secca. Noi percepiamo le gambe i piedi le braccia le mani come prolungamenti dei nostri pensieri, ma abbiamo coscienza che un giorno accadrà l’irreparabile evento: la separazione. Una volta divisi, iniziamo ad amare, perché, incompleti, scopriamo di non essere eterni. Il tuo viso è disfatto, in questo momento di atarassia decadente, quasi letale: la cifra del fatto che non sei infinito ti ha provocato una gran commozione, un gran male?
La metropoli genera i suoi propri mostri: potere, burocrazia, politica, disagio, inutilità. Non c’è posto per l’ideale: il dolore è una prova per uscire da sé, un’imposizione che tempra il coraggio. Rotella di ingranaggio, già ruota per significare, il disegno frulla, si slaccia, scalciato da forze impersonali. Sarà un caso?
Passione per la verità di sostanza giace uno strato al di sotto del linguaggio della città industriale. Le forme sono sperimentali, ma la rappresentazione è ricucita, ricostruita. Il quadro, come rispondente ad una regola interna, si auto-rigenera in un nuovo impianto. L’effigie degrada di livello, creando la risalita della materia in senso più nobile, come mediazione drammatica: inizio del dominio della volontà creativa. Il fuoco non si sprigiona dall’immagine, ma la invade attraverso forme trattate in levità con materia dura. L’impasto si sublima.