La Fondazione Accorsi Ometto accende la nuova stagione espositiva torinese con il nuovo allestimento della sala delle Arti del Barocco e la mostra Novecento in cortile, a cura di Bruto Pomodoro
Il Museo per sua stessa natura è un organismo vivo, e mai come ora, in un momento di grandi sfide per le istituzioni museali imposte dall’emergenza sanitaria (ma non solo), risulta altrettanto vitale per i musei adattarsi alle normative, e, di conseguenza, alle nuove abitudini ed esigenze del pubblico, individuando nuove forme di engagement per i visitatori e rinnovate modalità di fruizione. Il Museo Accorsi, giunto al ventesimo anno dalla sua fondazione, ha di recente affrontato anche un altro grande cambiamento: il 18 giugno 2019 è prematuramente e improvvisamente scomparso il suo fondatore, il Cavaliere Giulio Ometto; dal primo ottobre il nuovo direttore è Luca Mana, storico dell’arte, da molti anni stretto collaboratore di Ometto e già responsabile delle collezioni. Un’eredità importante che Mana si è trovato ad affrontare in un anno reso più complesso da un evento inaspettato (quello che gli economisti chiamerebbero “il cigno nero”) ma che ha offerto, di contro, l’occasione per ripensare la mission del museo, pur mantenendo salde le proprie radici: le opportunità fornite dalle piattaforme social (e una serie di accattivanti rubriche, una per ogni giorno della settimana), l’utilizzo degli spazi aperti come il cortile per mostre di scultura e accoglienza del pubblico, la possibilità di utilizzare nuovi spazi della Fondazione dotandoli dei migliori apparati museografici, la volontà di rafforzare nuove collaborazioni con altre istituzioni museali in modo da aprire i propri ricchi depositi. Tutti fattori che ridisegnano, di fatto, un’identità più marcatamente disegnata su un museo d’arti decorative di matrice europea che su una casa privata, pur dotata di una straordinaria collezione: piccolo ma raffinato cambio di passo, l’accesso libero al percorso museale con l’ausilio di una breve guida cartacea che rimane al visitatore e ne chiarisce in poche ma significative pagine la natura del Museo.
Il nuovo corso è stato inaugurato lo scorso 18 giugno 2020: in quella data è stata aperta al pubblico la sala Arti del Barocco completamente riallestita, omaggio all’antiquario Pietro Accorsi e al precedente presidente Giulio Ometto e alla sua passione per il collezionismo.vLa galleria (dalla quale si accede ad una bellissima terrazza che verrà aperta in futuro) ospita numerosi oggetti preziosi, la cui presenza rimanda alle “arti suntuarie”, massima espressione del bello unito all’utile che proprio nel XVIII secolo raggiunse livelli di grande perfezione tecnica. Le opere selezionate sono tra le più importanti della collezione permanente, con un allestimento – notevole l’apparato illuminisitico – che ne esalta materiali e corrispondenze.
L’8 luglio si aggiunge una nuova inaugurazione: apre al pubblico “Novecento in cortile”, mostra di sculture che apre al XX secolo e rende omaggio a sei grandi artisti del Novecento, fra i maggiori interpreti internazionali della scultura del dopoguerra; l’esposizione, nata da una’idea di Luca Mana con Giuliana Godio, è curata da Bruto Pomodoro, figlio di Gio’, artista al quale già due anni fa era stata dedicata una bella mostra. Pomodoro interviene sullo strenuo desiderio dell’uomo di rifugiarsi nel Bello proprio quando situazioni drammatiche gli ricordano, senza sconti, la propria immanenza: nel testo che accompagna la mostra afferma: “Esiste un aspetto spirituale, legato indissolubilmente a ciascuno di noi: la ricerca consolatoria della bellezza che l’uomo, già dai tempi della preistoria, ha sempre cercato di rappresentare, riprodurre, reinventare. È questa una ricerca insopprimibile, che coinvolge ogni aspetto della nostra vita, dalle rappresentazioni sacre e allegoriche a quelle mitologiche, dalle scene di vita quotidiana ai paesaggi, dalle nature morte alle rappresentazioni delle battaglie, dalle composizioni figurali alle opere astratte in un fluire ininterrotto attraverso i secoli; nonostante carestie, guerre e pestilenze, non abbiamo mai potuto fare a meno di questi miracolosi “oggetti”, non abbiamo mai smesso di ammirarli, di studiarli, finanche di possederli”. In tale prospettiva sono stati scelti Arman, Paolo Borghi, Gio’ Pomodoro, Riccardo Cordero, Igor Mitoraj e Ivan Theimer che attraverso le loro undici opere realizzate in differenti materiali– bronzi, acciai e terracotte – si ergono a vessillo di speranza e di volontà di ripartire, dopo la comparsa del famigerato virus che ci ha recentemente colpiti.
In mostra si possono ammirare il monumentale Mercurio (anni ’80) di Arman, uno fra i massimi esponenti del nouveau réalisme, famoso per le sue accumulazioni, per gli strumenti musicali e per le sue frammentazioni, oggetti che differiscono fra loro solo per qualche dettaglio, sezionati dal loro insieme; la grande terracotta Cavalcata interrotta (1990) di Paolo Borghi che ben rappresenta la sua poetica di rivisitazione dell’arte classica e di indagine sul mito; i bronzi patinati Tensione verticale (1963-64) e Sole deposto (1982) di Gio’ Pomodoro, testimonianze di due diversi cicli produttivi del Maestro marchigiano, quello delle “Tensioni”, opere che cercano di definire il concetto di vuoto, e dei “Soli”, archetipi geometrici di uno dei simboli più rappresentativi dell’umanità, fabbrica d’energia senza proprietari, come amava definirlo egli stesso; il maestoso acciaio satinato Asteroide (2017) di Riccardo Cordero in cui la forma plastica astratta, una struttura segnica attentamente progettata, è posta in dialogo con lo spazio circostante, di cui l’opera ne attiva la realtà fisica;
i due grandi bronzi di Igor Mitoraj, Icaro alato (2000) e Luci di Nara pietrificata (2014), che testimoniano la visione postmoderna dell’artista che, attraverso le fratture presenti sulla figura, alludenti al frammento e al reperto antico, ci ricordano la situazione dell’uomo contemporaneo con le sue fratture e la sua perdita di identità; infine, di Ivan Theimer, Tobiolo (1999), Tartaruga con montagna (2004), Medusa (2005) e Arione con delfino (2008), quattro opere in bronzo di diverse dimensioni fra loro collegate da un unico denominatore: un solido impianto classico che riecheggia ai miti rappresentati dalla scultura greca.
Abbiamo rivolto alcune domande al direttore Luca Mana, chiedendo di raccontarci ombre e luci del nuovo corso:
Direttore, il 2019 è stato un anno nodale per la Fondazione Accorsi – Ometto, che ha compiuto 20 anni, con oltre 600mila visitatori che hanno visitato il museo. Purtroppo è stato anche l’anno dell’addio a Giulio Ometto, con il quale Lei ha a lungo collaborato e del quale, come nuovo direttore del Museo, raccoglie l’eredità. Può farci un primo bilancio dalla sua designazione e illustrarci le nuove linee guide?
La scomparsa del Presidente Ometto è stata sicuramente un punto di non ritorno: erede di Accorsi, con lui se ne è andata non solo la memoria storica del celebre antiquario, ma anche un certo modo di intendere il Museo Accorsi-Ometto, pensato fin dall’origine sull’esempio di Villa Paola (la dimora di campagna che Accorsi aveva sulla collina di Moncalieri) e gestito, fino all’anno scorso, più come casa privata che non come museo. Da direttore, mi sono immediatamente posto una domanda: cosa vogliamo comunicare di questo luogo? Che è stata la casa di due antiquari o che è un museo di arti decorative? Non essendo mai stato abitato né da Accorsi, né da Ometto, il Museo non può essere definito “tecnicamente” una casa-museo, pertanto ho deciso di puntare sul museo di arti decorative, rendendolo meno esclusivo e sempre più inclusivo.
L’emergenza sanitaria ha imposto un difficile cambio di passo per tutte le istituzioni museali: come ha reagito il Museo Accorsi-Ometto, le piattaforme social hanno in parte supplito secondo Lei? Diventeranno un canale parallelo ormai imprescindibile per il rapporto con il visitatore finale?
L’emergenza COVID ha dimostrato l’utilità dei social che, se ben gestiti, possono accompagnare e potenziare la normale comunicazione. Considerati fino a qualche mese fa una sorta di attività ludica a latere della normale vita museale, durante il lockdown i social ci hanno permesso di intrattenere chi già ci conosceva e di farci scoprire da chi ignorava la nostra esistenza. Inoltre, si sono rilevati utilissimi per approfondire alcuni aspetti inediti delle nostre collezioni e delle figure di Accorsi e di Ometto. Tuttavia, la fruizione virtuale non potrà mai sostituire quella reale: le opere hanno bisogno di essere viste dal vero. E poi c’è l’aspetto economico, normalmente poco trattato, ma fondamentale, per un’impresa culturale quale è un museo. I visitatori “reali” pagano un biglietto d’ingresso che permette di rientrare, seppure minimamente, delle spese di gestione che sono enormi. Sicuramente in futuro ci attrezzeremo per rendere gli spazi museali visibili anche on-line, magari dietro il pagamento di un piccolo contributo.
La scorsa settimana ha aperto il pubblico la nuova Sala arti del Barocco con lo straordinario, fiammeggiante vassoio da parata in tartaruga (addirittura retroilluminato): ci racconta come è nato l’allestimento di questa nuova sala e quale dialogo propone tra le opere esposte?
La decisione di allestire la nuova Sala Arti del Barocco è sorta a seguito dell’acquisto del vassoio in tartaruga già appartenuto ai marchesi Del Carretto di Gorzegno e Moncrivello. Si tratta di un’opera straordinaria, un bellissimo esempio di “piquet tartarugato”, tecnica tipica della Napoli barocca (in particolare dell’area di Torre del Greco, dove un censimento del 1871 segnalava la presenza di oltre mille e duecento persone impiegate in questo tipo di produzione), ma diffusa anche in Nord Europa. La lavorazione consisteva nell’addolcimento del guscio di tartaruga nell’acqua bollente e nell’olio d’oliva, cui seguiva l’impressione di disegni in madreperla o strisce in oro e argento. Nel 1745 papa Benedetto XIV fece realizzare il nostro vassoio quale dono diplomatico per il marchese Leopoldo Del Carretto che molto si era impegnato per raggiungere un accordo tra papato e Casa Savoia su chi spettasse la proprietà della Sardegna. Nel nuovo spazio, l’oggetto, addirittura retroilluminato, è posto in dialogo con altri tesori barocchi della collezione, quali manufatti in bronzo, pietre dure e maiolica, nel tentativo di raccontare cosa è stato il Barocco e in quali forme si è manifestato.
L’ 8 luglio inaugura una nuova mostra di scultura nel cortile del Museo: ci può parlare di questa apertura al contemporaneo, linea già percorsa da qualche anno (ricordiamo la bella mostra su Giò Pomodoro) con un ottimo successo di pubblico?
La mostra “Novecento in cortile. Omaggio ai grandi maestri della scultura contemporanea” è stata una mia idea, subita accolta favorevolmente dal Presidente Costanzo Ferrero, dal CDA e da tutto lo staff del museo. Pensata in pieno lockdown, vuole essere una risposta positiva e coraggiosa a questo momento di grandi difficoltà, dove la frase “distanziamento sociale” è diventata un ritornello per me inaccettabile. Il museo è un luogo aggregazione sociale, dove persone diverse possono incontrarsi e scambiarsi opinioni e idee. Non potendo fare mostre al chiuso, se non con grandi difficoltà, ecco allora che abbiamo organizzato un importante evento culturale all’aria aperta, nel pieno rispetto delle disposizioni sanitarie e sfruttando il nostro cortile, uno dei più belli del centro città.
Qual è la stata la mostra più visitata in questi primi vent’anni?
Sicuramente quella su Vittorio Matteo Corcos che ha portato in museo quasi 50.000 visitatori. Una esposizione bellissima, curata dal Professore Carlo Sisi, uno dei massimi studiosi di storia dell’arte italiana.
Ci può dare qualche anticipazione dei programmi per l’autunno?
Covid permettendo, il prossimo 7 ottobre inaugureremo una mostra sulla produzione del pittore-vedutista ottocentesco Carlo Bossoli. In mostra una quarantina di suoi capolavori saranno messi a confronto con diverse fotografie del tempo. L’obiettivo è quello di raccontare la vita quotidiana ai tempi del Risorgimento italiano con un’attenzione particolare ai trasporti e alla moda. Inoltre, stiamo predisponendo una serie di incontri-conferenze con direttori d’importanti realtà museali italiane, nel tentativo di essere meno autoreferenziali e più internazionali.
Può parlarci della Sala Accorsi alla Reggia di Venaria e di questa straordinaria collaborazione?
A partire dal 23 luglio, alla Reggia di Venaria Reale sarà possibile visitare una sala interamente arredata con mobili e oggetti d’arte di proprietà della Fondazione Accorsi-Ometto. Si tratta in gran parte di manufatti sei-settecenteschi provenienti dalla donazione di Giulio Ometto. Il progetto, intitolato “Collezioni in trasferta”, vuole essere un esempio virtuoso di “conservazione condivisa”, mirata a valorizzare opere che, per motivi di spazio, non potremmo esporre in Museo. Così, piuttosto che tenerle chiuse in un deposito, abbiamo deciso di concederle in comodato a un’importante istituzione culturale quale è la Reggia di Venaria Reale. È un modo concreto di fare sinergia tra musei attivi sullo stesso territorio.
Per info
Via Po 55 Torino