Firenze 1911-1922. La pittura italiana del Sei e Settecento in mostra (Firenze, Edifir, 2022), scritto da Andrea Leonardi, è stato presentato lo scorso aprile nella cornice dello storico Palazzo Pucci a Firenze.
Il volume è inserito nella collana “Studi e Percorsi Storico-Artistici”, co-diretta dallo stesso Leonardi (professore associato di ‘Storia dell’Arte Moderna’ presso l’Università di Bari), insieme a Patrizia Dragoni (professoressa ordinaria di ‘Museologia e Critica Artistica e del Restauro’ all’Università degli Studi di Macerata). Relazioni, articoli di giornale, interviste, scambi epistolari, bozze di saggi mai usciti, tra cui, soprattutto, quelle gustosissime inerenti le diverse redazioni della Farragine sul Seicento e sul Settecento italiani mostrati a Firenze di Roberto Longhi (poi da lui sintetizzata negli Scritti Giovanili del 1961), sono gli strumenti impiegati dall’autore per indagare i tratti di un’Italia che, negli anni compresi tra il primo conflitto mondiale e la marcia su Roma, decise di prendere in mano la questione ‘beni culturali’. Firenze 1911 (la Mostra del Ritratto Italiano), Firenze 1915 (la mancata Mostra delle ville e dei giardini italiani), Firenze 1922 (la Mostra della Pittura Italiana del Sei e Settecento): in questi tre passaggi è possibile riassumere la progettualità di Ugo Ojetti (1871-1946) in capo al tema delle grandi esposizioni retrospettive di arte antica. Si è trattato di un’intensa stagione di studio, di ricerca e di divulgazione del patrimonio nazionale, che, dopo l’ottobre del ’22, prese ovviamente un’altra piega politico-culturale.
Innanzitutto, perché questa attenzione di Ojetti per il cosiddetto Patrimonio?
Questo accadde per cominciare a fare del Patrimonio storico-artistico uno strumento di consenso, ma anche per rispondere ai nuovi orientamenti in materia di rapporti tra collezionisti privati, musei ed esposizioni. Dalle carte si comprende bene di come a Firenze, per la prima volta nel Novecento, Ojetti seppe riadattare alle esigenze del nuovo secolo il modello delle mostre europee dell’Ottocento. Inoltre, appare chiaro che l’intuizione forse fondamentale di Ojetti è stata quella di coniugare una spesso elevatissima qualità degli oggetti esposti – il Louvre acconsentì a prestare la Morte della Vergine di Caravaggio nel 1922 -, con una larga ‘audience’ finalizzata a un’esigenza educativa ritenuta eccentrica rispetto alle questioni più elitarie dell’estetica e del gusto. Luci e ombre: di sicuro gli sforzi del romano Ojetti nell’ambito dell’organizzazione di eventi espositivi di questo tipo contribuirono a fare di Firenze una vera e propria capitale culturale; a ben vedere, però, essi sono serviti anche per gettare le problematiche basi dell’affollatissimo museo a cielo aperto che tutti noi conosciamo oggi.
Com’è nata questa ricerca che si è tradotta in un libro di ben 400 pagine?
Di sicuro, questo libro, che corre per 400 pagine organizzate su sei capitoli, cui sommare un vero e proprio ‘atlante’ di immagini a fare da corredo iconografico e da supporto alla lettura, non sarebbe stato possibile se non ci fosse stato il precedente di Arte antica in mostra. Rinascimento e Barocco genovesi negli anni di Orlando Grosso (1908-1948). Nel 2016, infatti, con Gianni Carlo Sciolla – che di quel volume scrisse la prefazione – discutemmo della possibilità d’intraprendere un’analisi multidimensionale anche della mostra a Palazzo Pitti del 1922, dove la cultura figurativa della ‘Genova pittrice’ aveva conosciuto il suo debutto in modo davvero sorprendente. Dopo qualche anno di lavoro e persino ricerche di dottorato su personalità come Margherita Nugent (voce narrante delle mostra con le sue Note e impressioni), Firenze 1911-1922. La pittura italiana del Sei e Settecento in mostra è diventato realtà, con un’appendice dedicata alla partecipazione genovese del 1929 alla Mostra del Settecento Italiano di Venezia, ma, soprattutto, con la volontà di leggere l’episodio espositivo del ’22 nell’ambito di una progettualità ‘larga’ che ha inizio, nel 1911, con la Mostra del ritratto italiano e che arriva a piena maturazione, appunto nei primi anni Venti, con la Mostra della pittura italiana del Sei e Settecento.
Quali sono i principali elementi di novità?
Nell’introduzione provo a ricordarlo per il tramite di Alessandra Mottola Molfino che, nel suo fondativo libro dedicato ai musei, ha scritto – parafrasando Walter Benjamin – di come, senza i collezionisti, molto probabilmente, oggi, non esisterebbero tali istituzioni. Allo stesso modo, nel bene o nel male, possiamo affermare che se in Italia non ci fosse stato Ugo Ojetti, forse non avremmo potuto contare sul sistema delle mostre così come lo conosciamo oggi. Nonostante le drammatiche cesure (due guerre mondiali, una pandemia, il passaggio dai totalitarismi alle democrazie), a ben vedere i materiali d’archivio compulsati per la costruzione del volume dimostrano come, in realtà, si tratti di un vero e proprio continuum. Certo, Roberto Longhi ne avrebbe denunciato l’assoluta parzialità, a suo dire dovuta ad una selezione astorica e per di più gravata da una generale confusione critica e attributiva. Ma questo accadde solo con le Note che lei ricordava all’inizio, cioè quelle pubblicate nel 1961 ma già approntate dal Longhi nel ’59.
Abbiamo detto di Longhi, ma, invece, circa il ruolo giocato da Ugo Ojetti?
Nonostante gli inciampi, il ‘capolavoro’ di Ojetti rimane la Mostra della Pittura Italiana del Sei e Settecento, inaugurata a Firenze il 20 aprile del 1922. In virtù degli oltre mille dipinti enumerati già nella prima edizione del catalogo, è l’evento che il teorico dei ‘musei effimeri’, Francis Haskell, ha descritto come un prodotto «stupefacente», che è poi anche l’aggettivo da me scelto per il titolo dell’introduzione. Capiamoci, con questa operazione non si è voluto assolutamente minimizzare i ben noti limiti della mostra. Tuttavia, la valutazione di Haskell si fonda su un dato oggettivo: con l’esposizione del ’22 Ojetti riuscì a concentrare alcuni tra i massimi capolavori della pittura italiana del XVII e del XVIII secolo nella residenza dei Medici-Lorena, Palazzo Pitti.
Che importanza assume il ‘contenitore’ della mostra, Palazzo Pitti?
Lo spazio della mostra coincide con quello della dimora che Vittorio Emanuele III aveva offerto alla nazione giusto tre anni prima, nel più ampio quadro delle cosiddette dismissioni reali del 1919, a parziale copertura dei costi della vittoria contro l’impero austro-ungarico. Proprio in quel palazzo, secondo Ojetti, la pittura italiana del Seicento e del Settecento era rientrata nella storia dell’arte europea dalla porta principale, senza possibilità alcuna di «cacciarla nell’oblio un’altra volta». In quel momento possiamo dire che anche Longhi era d’accordo, dal momento che negli scambi epistolari intercorsi con il curatore si era detto «pronto a servire» e che, nella primissima e sin qui inedita redazione della celebre Farragine, egli avesse rimarcato di quanto fosse «bella» la «Mostra del Seicento e del Settecento italiano a Firenze», pur essendo una primavera in cui già tirava una brutta aria (e non solo in Italia).
Circa il clima politico di questa fase, che è immediatamente precedente alla ‘marcia su Roma’, la mostra ne risentì?
A tal proposito, la copertina del volume ne è plastica rappresentazione: è un foglio del Longhi ‘disegnatore’ che accompagna la Farragine di cui dicevo, dove il nostro è chiaramente riconoscibile al centro dello specchio grafico, in virtù del suo inconfondibile profilo da lui stesso restituito in chiave caricaturale. Egli sembra così volersi porre come osservatore già critico della mostra e del suo pubblico, forse sin da allora percepito come troppo convenzionale, fatto di donne e di uomini il cui destino purtroppo era già scritto. Sul margine superiore vediamo, infatti, incombere un volto maschile con gli inconfondibili e altrettanto caricaturali baffetti, che diventa anche un utile termine ante quem per la datazione di questo straordinario documento: dovrebbe trattarsi di Adolf Hitler, nel 1923 artefice del fallito Putsch di Monaco che lo avrebbe portato al carcere dove iniziò la stesura del Mein Kampf. Tuttavia, in quel momento, appare evidente di come Longhi, pur nella sua pretesa terzietà, avesse deciso di schierarsi dalla parte di Ojetti, in opposizione a quanti, come il direttore della Pinacoteca di Brera, Ettore Modigliani, ad esempio, avevano invitato invece l’organizzatore-curatore a un approccio più prudente nel formalizzare le richieste di prestito.
Come può un libro di questo genere influenzare l’analisi critica dell’argomento ‘storia delle esposizioni’
Domanda difficile e risposta chiaramente non all’altezza… Al netto delle pionieristiche indagini di Fernando Mazzocca (correva il 1975), che hanno illuminato lo sfondo culturale della mostra del 1922, aprendo poi la strada ad una pubblicistica eterogenea e in costante espansione, in primo luogo mi sono reso conto che, forse, era rimasto ancora un discreto margine per riflettere sulla macchina predisposta in funzione di un evento a tal punto complesso, con una burocrazia e una logistica che dovevano essere in grado di governare i più diversi aspetti del progetto di politica culturale posto a suo fondamento e, soprattutto, le dinamiche sottese alla rete dei prestiti pubblici e privati che sono stati poi seguiti nei loro più diversi passaggi rincorsi tra l’Italia e i diversi Paesi europei (Francia, Inghilterra, persino la Germania e l’Europa centro-orientale), confrontandoli con il coevo dibattito storico-critico.
E già possibile ora tracciare una storia degli studi sulle esposizioni?
Certo, sul tema ‘mostre’ la riflessione è ormai davvero ampia e di sicuro non comprimibile nello spazio di un’intervista. Sempre per dirla con Longhi, anche con questo libro si è tentata una vera e propria «partita a poker» rispetto a un panorama di ‘giganti’ degli studi dove, tra le linee d’indagine più recenti e sempre a discendere dall’insuperabile Francis Haskell, mi piace ricordare almeno quelle raccolte nel volume a cura di Michela Di Macco e di Giuseppe Dardanello (Fortuna del Barocco in Italia. Le grandi mostre del Novecento). Ma non è possibile dimenticare nemmeno l’americanizzazione del fenomeno indagata da Lorenzo Carletti insieme a Cristiano Giometti (Raffaello on the Road. Rinascimento e propaganda fascista in America 1938-40). Tuttavia, è chiaro che farei davvero un torto ai tantissimi e bravissimi colleghi nel non menzionarli qui. E’ per questo che ci tengo a rimandare proprio all’Introduzione del volume dove ho prestato particolare attenzione a tracciare una ‘breve ma veridica’ (a parer mio) storia degli studi sulle esposizioni d’arte antica in generale e, nello specifico, sul profilo di Ojetti.
Ci sono in prospettiva nuovi percorsi d’indagine?
La progressiva attualizzazione del dibattito sulla necessità delle esposizioni è senz’altro una risposta possibile, a muovere proprio dal Longhi del 1961 (Note in margine al catalogo della mostra sei-settecentesca del 1922), ma passando pure per il Previtali del 1984 (Troppe mostre, giuste misure). E’ una linea che ha portato poi a ulteriori e diacronici sviluppi con gli interventi di De Simone e Pellegrini (Il sonno della ragione genera mostre?), di Montanari e Trione (Contro le mostre), senza tralasciare le singole declinazioni regionali sondate ad esempio da Causa (Caravaggio tra le camicie nere).
PER INFO
Andrea Leonardi
Firenze 1911- 1922. La pittura italiana del Sei e Settecento in mostra
Edifir, Firenze