I gioielli di Giorgio Vigna, così come le sue opere, ricercatissime dal collezionismo internazionale, racchiudono energia e tensione creativa, unite ad una forte componente simbolica e un non comune trattamento della materia.
Caratteristiche che in passato avrebbero destinato le sue creazioni a figurare nelle Wunderkammer, dove naturale e artificiale sono paradigmi di meraviglia.
Giorgio Vigna (Verona, 1955) compie la sua formazione tra la città natale, Venezia, Roma e Milano. Artista e collezionista poliedrico e fantasioso, ha a lungo collaborato in ambito teatrale e cinematografico per le scenografie e per la realizzazione di gioielli di scena. Le sue opere, dalle sculture ai gioielli, dai lavori su carta – le Cosmografie – alle grandi installazioni in vetro, rispecchiano l’ampiezza e profondità della sua costante ricerca sui materiali, trattati in modo sempre nuovo e sorprendente per individuarne limiti e possibilità.Le forme evocate – come i suoi celebri Sassi – sono essenze primarie, espressione poetica degli elementi con cui lavora. Forti e naturali, universali e senza tempo, portatrici di valenze simboliche e ancestrali.
Nel 2013 il Museo di Castelvecchio a Verona, nella Sala Boggian, ha ospitato la personale Stati Naturali, a cura della direttrice Paola Marini: in occasione della mostra, Vigna, oltre ad esporre l’intero spettro della sua produzione in carta, vetro e metallo, ha realizzato l’installazione permanente Acquaria per la fontana di Carlo Scarpa. Nel 2017, per le Gallerie dell’Accademia di Venezia, ha creato l’opera Fuochi di Rugiada, realizzata con la Venini, posta all’ingresso come segno di benvenuto ai visitatori. Numerose le partecipazioni a mostre nazionali e internazionali; Il suo lavoro fa parte di collezioni pubbliche e private in tutto il mondo, tra cui il MAD, Museum of Arts & Design e il Cooper Hewitt, Smithsonian Design Museum di New York, la collezione dello State Hermitage Museum di S. Pietroburgo, il Museo del Vetro di Murano, la Collezione Bellini-Pezzoli del Castello Sforzesco di Milano, la collezione di gioielli d’artista di Diane Venet, l’Olnick Spanu Collection di New York. In occasione della mostra “Scultura Aurea. Gioielli d’artista per un nuovo Rinascimento”, tenutasi nel 2019 a Palazzo Ducale di Urbino, ha esposto una straordinaria collana fuori scala in vetro e rame a imitazione del corallo, già in collezione Olnick Spanu.
Abbiamo avuto occasione di rivolgergli alcune domande sul suo lavoro.
Hai dichiarato: “[…] Il mio lavoro e la mia ricerca si situano su un confine, un margine tra realtà e immaginazione”. Puoi raccontarci dall’inizio quando è nato il tuo amore per l’arte?
Sono nato a Verona, città dove la stratificazione storico-artistica è particolarmente ricca: si passa dalle vestigia romane a quelle romaniche e gotiche con monumenti ed esempi straordinari, non ultimo il Museo di Castelvecchio che per me, anche in forza dell’intervento di Carlo Scarpa, è la summa, il perfetto equilibrio tra antico e moderno che diventa Bello universale. Per me Castelvecchio è stato (ed è) un luogo fondamentale, l’ho frequentato sin da adolescente, ne amavo le collezioni ma soprattutto il luogo (l’omonimo castello medioevale che lo ospita è posto sull’argine dell’Adige, nel cuore della città), la struttura architettonica, che mi dava molta pace e che mi ha fatto scoprire l’Arte nella sua accezione più alta. Da ragazzo ho frequentato il Liceo Artistico, sin da bambino ho dimostrato un interesse spiccato per la manualità e la creatività; i miei genitori, soprattutto mia madre, dotata di sensibilità e senso estetico non comune, hanno supportato questa mia predisposizione. Mio nonno aveva un laboratorio di oreficeria e io per qualche tempo ho anche lavorato in laboratorio da mio zio come operaio, realizzando solo nelle ore libere i miei primi esperimenti nell’ambito del gioiello: un’esperienza che sarebbe poi tornata utile molti anni dopo! Alla fine del Liceo Artistico ho avuto uno dei primi incontri fondamentali, che io chiamo gli “stati di grazia” della mia vita: quello con Richard Price Rummonds, autore, editore, tipografo e storico della stampa, che realizzava tirature limitate estremamente raffinate per la sua casa editrice, la Plain Wrapper Press, con sede proprio a Verona. Rummonds faceva parte di una comunità americana di intellettuali molto attiva in città: per la prima volta nel suo studio ho visto le carte marmorizzate, un vero colpo di fulmine che avrebbe influito sulle mie ricerche sulla carta, le future Cosmografie, alle quali mi sono subito dedicato. Mi accorgo ora che lo stupore nel vedere galleggiare il colore sull’acqua adagiata sulla carta era quello di osservare in pochi minuti ciò che succede nella pietra in centinaia di anni: venature, sedimentazioni, effetti visivi…di nuovo, una parte essenziale delle mie ricerche successive e del mio interesse sui materiali!
È in quel periodo che è iniziata anche la tua avventura con il teatro?
Sì, proprio in quegli anni avevo iniziato a lavorare nel teatro d’avanguardia come scenografo e anche come attore: ho acquisito così una familiarità col palcoscenico, acquisendo non tanto il piacere di esibirmi quanto la capacità di esibire ciò che realizzavo con le mie mani: un’altra esperienza che mi sarebbe tornata molto utile. Proprio per il teatro mi sono trasferito a Roma, un altro momento per me determinante: lì ho anche concluso in bellezza la mia esperienza d’attore con uno spettacolo dell’Ontological-Hysteric Theater di Richard Foreman, Luogo + Bersaglio, prodotto dal Teatro Stabile di Roma con Fabio Mauri come interprete principale. In quel momento Roma era molto vivace da un punto di vista creativo, e qui ho avuto un altro incontro determinante, quello con Enrico Job, straordinario scenografo ma anche artista eccellente, forse oggi poco conosciuto, il quale comprese le mie potenzialità e mi commissionò i tessuti degli abiti di scena per l’Otello del Maggio Musicale Fiorentino; per realizzarli usai proprio la tecnica del colore che galleggia sull’acqua, creando degli effetti simili al broccato, e poi si imprime sui tessuti. In seguito ho incontrato altri scenografi, tra cui Pier Luigi Pizzi, con il quale ho collaborato per scenografie e gioielli di scena per i più grandi teatri d’Europa.
A Roma hai proseguito anche la ricerca più prettamente artistica?
Sì, grazie alla collaborazione con un gruppo di architetti (tra questi Stefania Miscetti, che avrebbe aperto l’omonima galleria con la quale collaboro ancora oggi) per il quale ho incominciato a produrre carte decorative per l’arredamento. Grazie a Stefania Miscetti, con la quale il sodalizio è vivo da più di trent’anni, ho avuto un altro incontro folgorante, quello con la grande artista sarda Maria Lai, con la quale è iniziato un rapporto di amicizia significativo e solo dopo molti anni mi sono reso conto di quanto mi abbia dato in termini di apprendimento e condivisione.
Qui hai ripreso in mano il discorso dei gioielli?
Dopo le prime esperienze nel laboratorio dello zio a 16 anni, grazie alle quali avevo fatto pratica con i metalli (oggetti che rivendevo o regalavo agli amici) non avevo più preso in mano il discorso dei gioielli, se non gli ornamenti di scena: l’interesse si è ridestato in modo fortuito, osservando la lavorazione di molle a spirali in acciaio armonico, che incominciai poi a rielaborare per ottenere gioielli imprevedibili. Da quel momento non mi sono più fermato. E sempre grazie a Stefania Miscetti a Roma ho incontrato un maestro orafo straordinario, Paolo Mangano che è ancora oggi il mio punto di riferimento per la ricerca e produzione di gioielli e non solo.
Che cos’è il gioiello per te?
Per quanto apprezzi anche il gioiello d’oreficeria tradizionale, per me il gioiello non è solo preziosità legata al materiale: è soprattutto un’interazione tra materia, forma e corpo, un modo per approcciare la vita attraverso la tattilità.
I miei gioielli sono delle sculture che hanno una forte tridimensionalità (spesso volutamente fuori scala) e che quindi vivono come oggetti nello spazio anche quando non sono indossati. Al contempo si relazionano col corpo molto di più di quanto possa sembrare al primo sguardo, dimostrando leggerezza e portabilità inaspettate. L’esplorazione della materia nella sua relazione con il corpo e la gestualità mi ha portato a scoprire le potenzialità della forza attrattiva del magnete, un’energia naturale che anima le mie sculture che possono sia essere indossate nei modi più diversi, sia abitare lo spazio in modo fluido, anche nelle grandi dimensioni. Volevo avvicinare le persone all’oggetto scultoreo in modo concreto: in un museo, per quanto tu sia attratto dalla perfezione di una scultura, sei consapevole che ti devi limitare all’osservazione, non la puoi toccare; se invece la concepisci come gioiello, anche fuori scala e all’apparenza pesantissima (per poi scoprire che invece magari non lo è) ti accosti con un altro processo mentale che include immediatamente il senso del tatto: l’esperienza ti apre nuovi mondi di conoscenza e consapevolezza. Il gioiello, così concepito, entra a far parte della tua vita, sia che tu lo indossi o meno: è legato al corpo non come un muro a cui appenderlo ma come ad un insieme di sensi a cui attingere e con cui interagire.
Come hai sviluppato la ricerca sul gioiello negli anni?
È stata fondamentale la ricerca sui materiali ma anche quella sui luoghi di produzione dei materiali: i luoghi dove si produce sono anche quelli dove avviene la magia stessa della creazione e talvolta persino l’ispirazione. Per riprendere il filo del mio percorso creativo, dopo Roma mi sono trasferito a Milano, dove, all’inizio degli anni ‘90, ho avuto un altro incontro chiave, quello con Franca Sozzani, alla quale sono molto riconoscente, che ha pubblicato i miei gioielli su Vogue, rivista sulla quale anche la grande Anna Piaggi mi ha dedicato molto spazio. Questo mi ha permesso di entrare nel mondo della moda dalla porta principale lavorando per nomi molto noti, Anna Molinari, Krizia, Alberta Ferretti, Stephan Janson: erano ornamenti molto particolari, pezzi unici pensati per le sfilate che io realizzavo riferendomi, ancora una volta, alla dimensione del teatro: la sfilata in fondo era un nuovo palcoscenico sul quale dare sfogo alla mia creatività, e questa volta senza limiti. Naturalmente queste collaborazioni prestigiose, questo pubblico riconoscimento ha dato grande visibilità a tutto il mio lavoro: gioielli realizzati con le molle o l’anello Filo, ideato proprio in quel periodo e realizzato in argento, in oro e in rame hanno aperto una storia a sé, sono stati molto pubblicati ma anche molto imitati.
Disegni le tue idee, ami la progettualità su carta?
Ho raccolto, in 40 anni di lavoro, un grande archivio di schizzi e bozzetti (quasi mai disegni definiti), e proprio in questi giorni sto risistemando molto materiale perché a breve farò una donazione al Centro Studi Vetro alla Fondazione Cini: mi onoro di essere nel comitato scientifico delle Stanze del Vetro di Venezia. Riguardando i miei disegni mi sono accorto della totale circolarità del mio lavoro e quindi dell’atemporalità della mia ricerca: mi riconosco anche nelle primissime opere. Il mio lavoro non è una linea retta, è un incrocio di più mondi paralleli che negli anni si sono intersecati ed alimentati gli uni con gli altri. Tra i disegni ho ritrovato i primi gioielli in oro e vetro per Venini che presentai al Guggenheim di Venezia.
Come sei arrivato al vetro?
La prima folgorazione è stata durante il mio primo viaggio a Venezia da ragazzo, quando ho visto il cancello della Peggy Guggenheim Collection realizzato da Claire Falkenstein: l’immagine dei cotissi di vetro (vetro non completamente finito di fondere o affinare, n.d.r.) ingabbiati nel reticolo di ferro non mi hai mai abbandonato, quasi una premonizione. Molti anni dopo ho conosciuto il maestro Bruno Amadi, che realizza opere splendide di un iperrealismo meraviglioso con la tecnica a lume (in questo momento alle Stanze del Vetro c’è una mostra dal titolo L’Arca di Vetro sulla collezione di animali in vetro di Pierre Rosemberg in cui c’è una parte dedicata proprio agli animali realizzati da Bruno Amadi); è esposto anche un mio uccello realizzato nel 2007 per Ittala. Ad Amadi ho fatto realizzare i Sassi per i gioielli e altre opere in vetro: come artista credo molto nella collaborazione con i grandi maestri che hanno piena consapevolezza nel lavorare materiali specifici. Oggi lavoro molto a Murano: l’esperienza nella fornace, l’assistere al processo produttivo ancora una volta è fondamentale. I “Fuochi d’Acqua” realizzati per Venini, i “vasi di fiori” così come sono conosciuti, ad un primo sguardo sublimano l’aspetto meramente decorativo del fiore di vetro: in realtà nascono dall’osservazione delle tecniche dei maestri vetrai nella realizzazione delle loro opere in cui protagonisti sono l’acqua, il fuoco, la sabbia e i processi trasformativi. Ogni fiore è soffiato direttamente sulle canne di rame e poi si dovrebbe “staccare” da esse per diventare l’opera finita: in questo caso ciò non avviene, quello che diventerà la corolla è la parte che rimane attaccata alla canna. I fiori sono un rimando alla Natura ma anche alla lavorazione, all’essenza stessa del vetro: se quest’ultimo evoca l’acqua – perché incolore e trasparente – il rame – rimasto rosso sotto il vetro perché raffreddandosi non si è ossidato – richiama il fuoco della fornace. Come vedi un lavoro che ha molti livelli di lettura, non solo scenografico e biomorfico.
Ti definiresti scultore se dovessi individuare un ambito che più racchiude la tua essenza?
Potrei dire di sì, perché il mio approccio verso la materia è sempre molto fisico, ma non amo le categorie definite, sono un artista di ricerca, difficile da definire, penso anche ai miei lavori su carta, le Cosmografie…: in passato le mie opere sarebbero state da “wunderkammer”. Mi interessa l’artificio nell’accezione più alta del termine, un’alterazione dei processi formali e cognitivi che porti alla meraviglia. Si è artisti nell’atto creativo, nell’idea, ma poi si cerca di dominare il fuoco, usare l’aria, l’acqua, ascoltare la terra, modellare i metalli…Il mio atelier non a caso è pieno di opere non solo mie, ma manufatti che ho collezionato negli anni in giro per il mondo, che mi producono sempre emozione e meraviglia.
Cosa vorresti che passasse di te e della tua ricerca a chi indossa le tue opere, che, ricordiamo, sono tutti pezzi unici e che diventano quindi un oggetto strettamente personale per il possessore?
Io “carico” i miei gioielli di energie, di desideri consci e inconsci, di mondi evocati, non imitati: non voglio rappresentare la Natura, la voglio evocare, per me un concetto fondamentale: chi indossa i miei gioielli o ha un mio lavoro deve poter avere accesso a nuovi modi di interpretare la realtà naturale che ci circonda; mi piacerebbe che scoprisse nuove forme di interpretazione dell’infinita Bellezza che è intorno a noi.
Ci ricordi della tua esperienza per la Olnick Spanu Art Program con l’opera “La Radura”?
“La Radura” è stata fondamentale nel mio percorso artistico e spiega molto anche del mio “fare” e della mia progettualità: nel 2003, camminando con Giorgio Spanu nel parco che circonda la loro casa a Garrison, nella valle del fiume Hudson nello stato di New York, ho notato la base di cemento di una cisterna d’acqua, una spazio piano, una radura appunto, in mezzo alla natura rigogliosa…Da lì fare un progetto per quello spazio è stato tutt’uno, ma era la prima volta che applicavo il mio progetto Segmenti (che avevo già realizzato come gioiello e piccole sculture) ad una dimensione ambientale. Questi grandi sassi, che sono in realtà strutture aeree realizzate grazie a segmenti metallici che formano una rete tridimensionale, da lontano non sono visibili perché si confondono con la natura stessa: riesci a scorgerle man mano che ti avvicini. Un’opera che entra in relazione con l’ambiente con estremo rispetto e senso partecipativo. Nancy e Giorgio sono rimasti entusiasti di quest’opera tanto che è stata quella che ha ispirato il The Olnick Spanu Art Program che ha già coinvolto altri artisti italiani di fama internazionale nella progettazione di un lavoro site specific per la loro residenza nella valle dell’Hudson. Con Nancy e Giorgio, che sono tra i miei più importanti collezionisti (Nancy ha anche una straordinaria collezione di gioielli, oltre alla celeberrima collezione d’arte che porta il loro nome) il rapporto è stato sempre di grande affinità emotiva ed intellettuale e questo sentimento, unito al mio sentire per i luoghi e per quello che trasmettono, è una delle più importanti fonti creative che guidano la mia ricerca. I “regni” indagati sono molti, li accolgo intuitivamente e li restituisco in oggetti imprevedibili, ma dietro c’è sempre una fortissima componente emozionale.
Parlaci della tua esperienza al Museo di Castelvecchio a Verona con la Mostra Stati Naturali…
Realizzare una mostra nell’amato Castelvecchio, con tutto ciò che ha sempre rappresentato per me, è stato il sogno di una vita. L’ idea è nata da una proposta della direttrice Paola Marini, che ha scritto un bellissimo testo, e che mi ha permesso di riunire lungo il percorso museale, nella Sala Boggian e all’esterno, nella corte, tutte la mia produzione, dai gioielli alle sculture, dai vetri alla opere su carta. Nel realizzare questa mostra ho avuto la piena consapevolezza di ciò che dicevo prima, ossia che tutte le mie ricerche hanno percorso strade autonome e si sono sempre intersecate. Alcune opere poi sono state distribuite lungo il percorso museale dialogando con le collezioni permanenti con esiti davvero illuminanti, il che ha permesso anche di rileggere le opere stesse, di epoche diverse, sotto nuove prospettive. In ultimo c’è stata la grandissima possibilità di confrontarmi con la fontana di Carlo Scarpa: nella vasca ho posto sassi trasparenti; in essi si scorgono bolle d’aria solidificate con dei vuoti all’interno, sassi solo apparentemente leggeri. Si confondono ed emanano una nuova luce deviando le forme e le increspature dell’acqua. Acquaria è un omaggio all’Adige, ai sassi con cui sono state realizzate le mura di Verona e parte dello stesso Castelvecchio. Ho scoperto che lì vicino c’è la chiesa di San Zeneto: la leggenda vuole che in questa zona il santo patrono di Verona venisse a pescare nell’Adige, seduto su un sasso, conservato proprio nella chiesetta.
In che direzione va oggi la tua ricerca?
Negli anni mi sono mosso in molte direzioni affrontando tecniche diversissime e confrontandomi con tanti materiali: vorrei ancora esplorare il mondo delle Cosmografie e del vetro, senza lasciare i gioielli a cui sento di aver dato moltissimo in termini di creatività, tanto che forse è il mio lavoro più conosciuto presso il grande pubblico, anche grazie alle gallerie internazionali di arte contemporanea e di gioiello di ricerca con le quali collaboro,, tra le quali Elisabetta Cipriani Wearable Art a Londra, Studio la Città a Verona e Studio Stefania Miscetti a Roma.
Che consiglio daresti ad un giovane artista?
Di cercare la verità nel proprio lavoro, concentrandosi sul fare, magari senza pensare in funzione di una mostra o al confronto con gli altri: l’esposizione mediatica, oggi così massiva sui social, è una conseguenza e certamente può avere molti benefici, tuttavia è anche un momento in cui ci si espone senza filtri, il che può essere gratificante, ma allo stesso tempo destabilizzante perché può “espropriare ” in termini di creatività e identità: l’artista è tale perché ha l’esigenza di creare, prima di tutto per sé stesso, con rispetto e autenticità.
Per Info
Stupendo.
Grazie di cuore.
PS
Un immenso piacere degli occhi i tuoi stupendi lavori e bellissima l’intervista che permette di avvicinarsi a te e al cammino che hai fatto …
Grande Giorgio!!!
Grazie mille per le sue parole.
Paola Stroppiana