L’arte è, da sempre, sfida alla realtà, spazio di confronto politico e dispositivo sociale in grado di creare momenti di resilienza nell’individuo e nuove soluzioni per affrontare le crisi socio-culturali della collettività. In questo contesto, gli artisti si presentano come soggetti dalla grande sensibilità intellettiva ed emotiva, che, calandosi perfettamente nella nostra contemporaneità, ne colgono la pienezza, attivando nel fruitore dell’opera un processo critico di immedesimazione e compartecipazione.
Bahar Heidarzade (Teheran, 1981) è una giovane artista d’origine iraniana, che sottolineando la funzione catartica, divulgativa e critica dell’arte, articola il suo lavoro intorno a indagini socio-antropologiche e documentali. Esplorando e interrogando condizioni concettuali di luoghi di confine, Bahar restituisce al pubblico input di riflessione attraverso la pratica dell’azione performativa, della fotografia e dell’installazione audio-visiva. Nel 2006 lascia la sua città e la sua famiglia a causa delle difficili condizioni socio-politiche in cui versava il suo Paese, per proseguire e approfondire la sua ricerca artistica diventando portavoce dei diritti del suo popolo ed in particolare delle donne nel mondo. Nel 2013 si trasferisce in Italia. Studia Pittura all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, dove si laurea nel 2016, proseguendo oggi gli studi di specializzazione.
L’arte ha dato a Bahar la possibilità di esprimere a livello universale sentimenti e significati personali secondo un fare partecipativo che include il fruitore nel processo costitutivo dell’opera. Dall’11 aprile al 3 maggio 2019 L’Officina Con-temporanea di Torino, spazio espositivo di sperimentazione nell’ambito della residenza Luoghi Comuni, ha ospitato Mondo Salato la mostra personale dell’artista e i suoi “mondi sinestetici”.
La parola all’artista…
In che modo prende avvio il tuo percorso artistico? In quale contesto culturale hai iniziato a lavorare?
Sono nata a Teheran, in Iran. Ho sempre amato disegnare e dipingere fin dalla più tenera età: utilizzare i colori, disegnare, addirittura sui muri, era il mio gioco preferito. Intorno ai 14 anni ho cominciato a seguire le lezioni di maestri iraniani per poter apprendere le tecniche figurative. Nel 2003 mi sono iscritta alla Facoltà di Belle Arti di Teheran per studiare pittura da professori di rilievo come Manoochehre Motabar e Alireza Adambacan. Il mio stile in quel periodo è iniziato a mutare, virando su motivi espressionisti. La pittura, da sempre, rappresenta per me il linguaggio con cui esprimermi ed esternare le emozioni e i sentimenti più intimi.
Ti ricordi di un episodio che abbia segnato in modo evidente la tua ricerca?
Direi la negazione della libertà d’espressione. In Iran da sempre ogni forma d’arte è censurata. Per tale motivo ho scelto con rammarico di allontanarmi dal mio Paese per cercare la mia strada artistica. Ho vissuto in India ed in Armenia e nel 2013 sono arrivata in Italia. Qui mi sono iscritta all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino per specializzarmi in pittura. Dopo anni di lavoro e ricerca interiore sono riuscita a trovare in me stessa ciò che volevo esprimere e ora sono veramente libera nella mia Arte: è proprio questo ciò che continuo quotidianamente ad esperire nella mia ricerca.
Quando hai concepito il progetto Mondo Salato? Qual è stato lo spunto che ha dato avvio alla tua indagine?
Il progetto Mondo Salato nasce nella mia mente nell’ottobre 2017, in un periodo molto travagliato per me. Mi sentivo male perché mi tornavano alla mente ricordi negativi di eventi vissuti nella mia terra natia che mi avevano fatto soffrire terribilmente. Sono eventi appartenenti ad un periodo della mia esistenza di cui non parlo mai e che restano celati in me, ma che ho scelto di tirar fuori dal mio profondo attraverso le mie opere. Per questo ho deciso di ricorrere ad oggetti che utilizzavo in Italia e mescolarli a vestiti e scarpe tipici dell’Iran e del periodo che mi ero lasciata alle spalle. In particolare, ho scelto ciò che mi ha ricordato il mio passato in Iran proprio nel momento in cui ne ho fruito. Credo che la nostra memoria, i nostri ricordi, positivi o negativi che siano, riaffiorino alla mente anche grazie agli oggetti che ci circondano e che partecipano della nostra quotidianità.
Ci puoi spiegare il significato dell’opera anche in relazione al suo spazio espositivo e partecipativo?
Quest’opera viene allestita in un luogo ricoperto di sale. Il sale è un alimento quotidiano che troviamo sempre in cucina. Tante sono le sue proprietà: si scioglie, dà calore, disinfetta le ferite aperte, procurando bruciore, e levigando quelle passate. Ho scelto il sale per curare le mie ferite ancora vive e rigenerare le vecchie. Il sale grosso sul pavimento è utilizzato per evocare nell’osservatore la sofferenza: calpestandolo con le scarpe si ode il “rumore” del dolore, mentre scalzi lo si percepisce attraverso la pelle in un gioco di rimandi che permettono al fruitore di cogliere il sentimento di coloro che soffrono.
Qual è l’obiettivo a cui vuoi tendere, attraverso il tuo “fare arte”?
Io lavoro spesso su memoria e passato, violenza e sofferenza soprattutto in relazione al mondo femminile. Attraverso le mie opere parlo delle mie memorie e del mio passato, di quanto ho vissuto, dei dolori e delle violenze che ho attraversato e della sofferenza che ho sopportato. Mi sento portavoce delle donne che ho visto patire profondamente nel mio paese dal quale sono fuggita per avere la libertà di esprimere i miei pensieri e le mie emozioni. Con i miei lavori vorrei mandare un messaggio di denuncia che risuoni a livello universale.
L’istanza della memoria e della percezione emotivo-gestuale caratterizza la tua ricerca. La componente personale si connette a frammenti e ricordi collettivi che connotano il processo costitutivo della tua opera. Quale valore dedichi alla sua percezione e fruibilità?
La mia ricerca artistica si concentra sulle memorie e su tutte le esperienze che ho vissuto e rivivo ancora proprio attraverso il ricordo. Il passato per me è oggi: non ci si può dimenticare che ciascuno di noi ha lasciato alle spalle un passato che l’ha portato nel presente. Io penso che coloro che fruiscono delle mie opere possano trovare ricordi e memorie comuni e abbiano l’opportunità di “sentire” il mio vissuto anche se lontano dal loro. Si attiva così un processo di com-partecipazione che ci avvicina gli uni gli altri.
In questo senso vorrei citare La memoria, un’opera work in progress iniziata nel 2017 e dedicata all’emozione provata nell’osservare una collezione di fotografie anni Cinquanta, che ho acquistato qualche anno fa in un mercatino. C’è qualcosa di particolare in questa raccolta di immagini che mi parlano. Queste fotografie portano messaggi di famiglie, luoghi e frammenti di ricordi perduti. Mi sono trovata in mezzo a quelle memorie, in ogni fotografia, circondata da oggetti, luoghi, persone e forme astratte, come a casa. Intervengo d’istinto su ciascuna immagine con nastro adesivo e cera per nascondere alcuni dettagli ed evidenziarne altri. Le memorie e le storie s’intrecciano in uno scambio continuo di energie e percezioni.
La tua ricerca poetica affida a supporti multimediali come il video, la fotografia, la performance, il compito di rappresentare e dare una voce alla figura della donna nella cultura persiana, nel confronto – scontro fra modernità e tradizione, i conflitti del passato e l’incertezza nel futuro. Qual è, nell’ambito della tua produzione artistica, il lavoro che oggi esprime maggiormente il senso della tua indagine sociale e antropologica?
Si è proprio così. Le mie opere, qualsiasi sia il linguaggio artistico a cui ricorro – pittura, fotografia, performance, installazione e video – sono frutto della mia indagine sociale, politica ed antropologica.
In particolare, Io come te, tu come me, progetto fotografico che ho realizzato nel 2018, indaga il ruolo della donna nella società, raccontando della discriminazione femminile in atto in Iran e nel mondo, attraverso ritratti di donne private della propria identità. Queste donne sono avvolte dal velo, il chador, che lascia scoperti solo i capelli, la parte del capo solitamente oscurata dalla tradizione. Attraverso la loro chioma le donne possono raccontare le proprie storie e rivelare le proprie personalità. Il punto di vista è finalmente capovolto. In questo modo vorrei infondere nello spettatore la stessa inquietudine e il medesimo disagio che provano le donne e tutti coloro che nel mondo non sono liberi di esprimere il proprio pensiero.
Il tuo lavoro si compone di memorie, frammenti spazio-temporali, figure e forme astratte, segni ed elementi naturalistici. La dimensione dell’in-completezza reiterata a più livelli induce il fruitore a volerne colmare il vuoto: egli si immedesima nell’opera e attiva una riflessione sui suoi significati. In questo senso quindi come definiresti il concetto di “memoria”?
Paragono la memoria ad una radice del passato. Non è possibile dimenticare il nostro vissuto. Tutti noi lasciamo una traccia nel passato ed il passato lascia segni in noi. Tali segni sono presenti nell’oggi e servono a lasciare un messaggio per il domani.
Quale significato attribuisci all’elemento musicale nel tuo lavoro performativo?
Penso che la musica nella mia arte possa paragonarsi alla voce del mio popolo, che solo così acquista libertà d’espressione: il mio è un messaggio critico che mi auguro possa destare le coscienze nel mondo.