Incontriamo Riccardo De Marchi, di cui avevamo visitato i bellissimi stand monografici per la galleria Piero Atchugarry ad Artissima a Torino e ad Arte Fiera Bologna, nel suo studio nelle campagne di Udine.
Un artista filosofo e demiurgo, quasi asceta nel suo processo artistico che lo vede isolato e tenace a imprimere la sua esistenza quotidiana sui materiali. Un artista che fatto dell’analisi del segno – inteso come significato e significante – un punto nodale di ricerca, sino a dare vita ad un “alfabeto possibile” (come verrà definito il suo lavoro), meta-scrittura che acquista valore estetico grazie ai codici del contemporaneo. Astrazioni materiche, leggerezza visiva come risultato di massivi interventi sulle superfici: ossimori che trovano totale compiutezza nel gesto e nella traccia (l’attraversamento, come ama definirlo) lasciata da infiniti fori realizzati con il trapano a punteggiare le diverse superfici utilizzate, dal plexiglass al piombo all’acciaio. Di lui hanno scritto con finezza, tra gli altri, Luca Massimo Barbero e il filosofo Maurizio Ferraris; collabora con numerose gallerie in Italia e all’estero e le sue opere sono entrate in importanti collezioni pubbliche e private.
Con lui ripercorriamo il suo percorso artistico che parte dalla vittoria insperata di una borsa di studio alla Fondazione Bevilacqua La Masa che cambia la sua vita. Un percorso umano e professionale di grande coerenza, consapevolezza, sorpresa continua nell’epifania di una scrittura generata per sottrazione, per mancanza di materia (che paealtro lui recupera, non disperdendone l’energia, ma piuttosto conservandola in una eterna potenza cristallizzata): i fori creano un ritmo estetico che rimanda ad una lingua non conosciuta, ad un codice che si ignora eppure si riconosce come tale. Un codice che attraversa materiali, stanze, luoghi, che si moltiplica sulle superfici specchianti sino a “forare” cose e persone che in essi si riflettono. La scrittura diventa traccia, iscrizione e tatuaggio: il segno, nella centralità del suo ruolo – chiave per l’essere umano.
Riccardo, puoi parlarci dei tuoi inizi?
Nelle mie prime opere lavoravo sulla materia della pittura e sul colore in senso stretto. Ho iniziato con la libertà dell’autodidatta: la possibilità di frequentare l’Accademia di Belle Arti a Venezia è venuta grazie alla borsa di studio che ho vinto alla Fondazione Bevilacqua la Masa proprio con questo tipo di pittura e con l’installazione. L’idea che sottende al mio processo creativo è quella di lavorare in modo alchemico, cosa che torna successivamente anche sulle lamiere e sui metalli: una pittura magmatica che brulica di materiali e ne complica persino la percezione. In questi primi lavori rimane l’ambizione di una pittura con un contenuto simbolico intenso, che lambisce il misticismo. Sono lavori che definirei caravaggeschi perché quel poco di colore è finalizzato a portare squarci di luce…nonostante la quasi astrazione, per me appartengono ad un periodo figurativo, come anche i titoli (si pensi a “Evento luminoso”, “La grande Madre”, “Che cade”) indicano.
Quale l’avvio concettuale di questa ricerca?
Il punto di partenza è pollockiano, per il gesto di colatura e il punteggiare della materia sul supporto: l’ho sempre interpretata, anticipando di molto la ricerca successiva, come una pittura scritta. L’aspetto interessante, visto a posteriori, è che la ricerca di Pollock funziona molto bene anche per spiegare tutta il mio lavoro compiuto sul concetto di “traccia”: con il suo fare artistico mi accomuna anche la gestualità, il fare arte in posizione verticale sopra, o meglio, dentro le tele o lamiere. Sul dripping procedo per successive velature ma sotto ci sono dei miscrocosmi di materia sovrapposta. La tela è sempre un supporto, ma ti respinge, il colore rimbalza, per cui ho deciso di lavorare per sovrapposizione per creare dei livelli diversi.
Come sei passato alla fase successiva?
I lavori successivi a questi richiamano sempre le cadute, ma il materiale è ibrido, non più pittorico, ma neppure rigido come l’alluminio: ho usato il piombo, una sorta di carta più rigida. L’approccio era ancora pittorico, per poi passare nel ’91-92 alle proprie e vere scritture. Il primo lavoro in quel senso e a cui si può far riferimento per capire il mio lavoro è Lettera a Fontana del 1993. In quel periodo stavo studiando Fontana e il percorso mi ha portato ad una sorta di bivio: da una parte volevo eliminare tutta la simbologia che mi poneva dei limiti concettuali, dall’altra non volevo più lavorare su un materiale che rimbalzasse come la tela, ma che potessi attraversare: leggevo in quel periodo i testi di Jacques Deridda e di Maurizio Ferraris ed è stata un’illuminazione, perché ha coinciso con questa mia nuova esigenza. Mi interessa l’idea che attraverso la scrittura potessi rappresentare un simbolo che non fosse traducibile ma che mantenesse la sua forza iconica, e persino una precisa impronta umana. La lettera a Fontana dichiarava esplicitamente una eredità ma, essendo dichiaratamente una lettera, ne negava da un punto di vista concettuale, nella sua concretezza, l’aspetto metafisico, sottolineandone quindi oltre ad un chiaro tributo anche la differenza nell’approccio.
Deridda ha influenzato molto la parte concettuale del tuo lavoro…
Nel libro “Quale domani” scritto da Deridda, c’è un capitolo sull’importanza di scegliere la propria eredità, per me nodale. Nelle pagine iniziali del mio catalogo del 2008, realizzato insieme a alla galleria Niccoli di Parma con testi di Luca Massimo Barbero e Maurizio Ferraris, c’è proprio una mappatura di tutta l’eredità che ho colto, tutto ciò che mi ha nutrito, che ha reso possibile intraprendere questa strada. Per me è fondamentale sottolineare questa eredità, dichiararla: senza memoria non è possibile procedere. Questo all’inizio non è stato facile, nei primi anni il mio lavoro è stato osservato e giudicato come una replica dei buchi di Fontana, equivocando la mia lettura degli stessi, ai quali evidentemente e dichiaratamente facevo riferimento, pur scegliendo un’altra applicazione e interpretazione. Essendo autodidatta e, almeno nei primi tempi, scollegato dal mondo dell’arte, avevo un’idea precisa e autonoma sin da subito, e questo confronto non mi spaventava: il motore creativo dell’arte non è quello di inventare finte situazioni purché siano nuove, ma è fatto di slittamenti rispetto al passato, di lavoro in divenire, di sguardi obliqui alla lezione dei maestri, che possono aggiungere e togliere significato al mio lavoro.
Dal primo foro è subentrata un’infinita sequenza di fori che è diventata scultura-scrittura…
Da subito la scrittura mi è sembrata la svolta: ponendo in fila quattro punti si può creare un alfabeto, un alfabeto che non dice nulla, se non rimandarti all’idea stessa della scrittura. Sono interessato al corpo della scrittura, ho sempre avuto un approccio fisico con la materia, a partire dalla dimensione che occupa nello spazio. Nello stesso tempo questo interesse diventa un esercizio zen: costruisci paradossalmente per sottrazione (per cui quello che leggi è dato da ciò che manca). Vorrei che i miei lavori fossero sempre in bilico tra ordine e disordine, dove ci sono dei canoni, pagine che a forza di essere sovrapposte diventano mappe infinite. Da un punto di vista cromatico a metà degli anni ‘90 volevo mantenere un’idea della pittura, la cromia è quella della ruggine, oppure utilizzavo una pittura monocroma texturizzata. Le lamiere dovevano avere una forte memoria pittorica senza avere pittura vera e propria. Nei primi lavori bianchi la confusione percettiva che creavo era tra tela e lamiera, oggi mantengo questa ambiguità grazie ai plexiglasss (dove il buco si fa addirittura corpo) che appaiono leggeri, quasi sospesi, mentre in realtà sono pesantissimi. Una volta stabilito che era la scrittura il punto da cui partire (e lo rendevo evidente anche attraverso i titoli, citando testi di Beckett e di altri scrittori) la possibilità stessa di scrivere per sottrazione del materiale apriva a visioni diverse, utilizzando materiali diversi e di conseguenza portando a percezioni diverse. Ho sempre trovato interessante mantenere un assoluto rigore nell’idea del lavoro e nella concatenazione di effetti.
Ci sono poi i lavori sulle lamiere specchianti…
Nel progetto per gli interni di Villa Pisani a Bagnolo di Lonigo, progettata da Andrea Palladio a partire dal 1541, introduco, grazie alla lamiere specchianti, l’idea di tatuare con la scrittura anche lo spettatore e al contempo di scrivere per specchiamento sugli affreschi, mettendo in dialogo il mio lavoro con il passato: il soffitto si ribaltava nel pavimento creando una situazione di sprofondamento, un modo di tracciare la pittura del ‘500 in modo delicato. … Avevo già lavorato sulla trasparenza, le lastre di grandi dimensioni permettono ai fori di risultare sospesi, così come fossero ombre: l’utilizzo del plexiglass nasce dall’esigenza di dare fisicità al buco, mi aveva affascinato l’idea che il l’invisibile si rendesse visibile, al contrario del buco nero nella materia che rimane tale, imperscrutabile. E’ come se il nulla prendesse corpo: vedi la parte mancante anche in questo senso, è un ribaltamento concettuale forte rispetto al discorso proposto da Lucio Fontana, un discorso liminale, ambiguo; il buco nero dove tu entri e cerchi di immaginare un non-visibile, una sorta di metafisica. Dialogare, interferire in modo costruttivo: questo è il mio obbiettivo.
I blocchi a moduli sono arrivati dopo?
Nella scultura mi piace lavorare con moduli, come fossero mattoni, per dare l’idea sia di costruzione che di decostruzione, come nel caso del mio intervento recente a Villa Cavazzini a Udine. Mi piace anche affrontare altre forme volumetriche e scultoree, come quelle di trattenere in teche la materia che sottraggo…nell’installazione per la mia personale al Macro di Roma nel 2011 l’ho lasciata a terra, in altri casi la raccolgo. Ho realizzato anche un dittico di truccioli di polietilene e di alluminio…in realtà conservo tutti i truccioli dei miei lavori.
Ti sei misurato anche con altri materiali, il marmo per esempio?
Ho partecipato alla IX edizione della Biennale di Carrara nel 1998 curata da Enrico Crispolti, un’esperienza difficile e interessante, sono stato sei mesi, ho cercato di capire come creare fori di 4 cm di profondità e questo risultava impossibile perché non esistono punte così lunghe… io ho insistito e per non scaldare il marmo, che altrimenti si sfarinava per il calore, lo bagnavo costantemente: un lavoro interminabile!
Quale la tua prossima sfida?
Mi piacerebbe ad un certo punto ritappare tutti i buchi che ho fatto, riazzerando il materiale utilizzato. Un processo decostruttivo al contrario.
I tuoi lavori hanno un suono?
Lucio del Pezzo legge il mio lavoro come un codice musicale, attraverso la ritmicità del pieno e del vuoto e lo ha un “lavoro musicale”, “un’opera che manderò nel cosmo per tradurre qualcosa che esiste…”
Come definiresti le tue opere?
Opere atemporali come la Stele di Rosetta: un collegamento con il passato, una traccia ancora da decifrare, che ha un significato, e che come tale attraversa il Tempo.